Food wasteDimmi quanto cibo sprechi e ti dirò chi sei

In Cina viene sprecato il 27% del cibo prodotto, e altrove nel mondo non è meglio: per contenere gli sprechi servono azioni a tutti i livelli, ma anche scelte comportamentali individuali per far rendere al massimo ciò che produciamo

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Quando nel 1850 in Germania venne pubblicato il “Trattato dell’alimentazione per il popolo” del medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott, un’opera rivoluzionaria che fece della nutrizione il motore della storia umana poiché metteva il cibo all’origine della società, del pensiero, della religione e delle differenze culturali e di classe, il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach lo recensì regalando ai posteri uno degli aforismi più noti della contemporaneità: «L’uomo è ciò che mangia».

Come ebbe magistralmente a spiegare alcuni anni or sono Marino Niola su la Repubblica
«la forza dirompente del Trattato per Feuerbach sta nel fatto che fa da supporto a una nuova filosofia, dimostrando scientificamente che il pensiero comincia proprio dalla pancia e poi arriva alla testa». Cosicché il filosofo, partendo dall’affermazione di Moleschott secondo cui «senza fosforo non c’è pensiero» ci ha regalato un altro concetto oramai entrato nel senso comune: «Per introdurre qualcosa nella testa e nel cuore è necessario aver messo qualcosa nello stomaco». 

Fu come una bomba scagliata contro quella filosofia che aveva sempre messo le idee al principio di tutto, trascurando il fatto che è il corpo a produrle, la qual cosa equivaleva a dire che è la materia a generare lo spirito, e non il contrario. Ma – scrive Niola – «non si tratta di una semplice disputa filosofica. Quello che hanno a cuore sia il medico che il filosofo è la ricaduta sociale e politica delle loro affermazioni. Entrambi concordano sul fatto che alla base del progresso delle nazioni non sono certo le prediche, che disseminano la vita di principi, ma la giusta distribuzione del carburante». 

Un discorso profondamente radicale che rimise in discussione il dualismo che nell’uomo contrappone il corpo alla mente, l’anima alla carne. Per Feuerbach dunque l’unità dell’essere umano passa proprio dall’alimentazione, la quale è il vero filo che cuce insieme natura e cultura. Tuttavia, se siamo quel che mangiamo, e la nostra cultura dominante oggi ci porta a anticipare sempre più l’Overshoot Day–  cioè il giorno in cui la Terra, esaurite le risorse naturali disponibili per un intero anno, accaduto quest’anno il 29 luglio, inizia ad attingere a quelle dell’anno successivo – siamo anche quel che non mangiamo.

E non mi riferisco solo all’attitudine di comprare un determinato cibo per comodità o per moda senza basare acquisto e consumo sulle loro reali funzioni nutritive e le nostre necessità individuali, quanto anche al dato incontrovertibile che viviamo di surplus al quale non diamo peso, insensatamente. In Cina, per esempio, viene sprecato il 27% del cibo prodotto. Il 27% equivale più o meno a 350 milioni di tonnellate. Ma si sappia che non è la Cina l’eccezione: a parte gli Stati Uniti tutti gli altri paesi industrializzati si attestano su percentuali di spreco identiche ma, siccome con il suo 7% di terreni arabili la Cina nutre il 19% della popolazione mondiale, un simile spreco è estremamente rilevante sia per la sicurezza alimentare sia per l’impatto ambientale inteso in termini di consumo di risorse e di emissioni di gas serra.

Da qui a comprendere quanto sia importante puntare sull’adozione di approcci capaci di ridurre le perdite e gli sprechi il passo è breve. Servono azioni a tutti i livelli: globale e locale, politico, culturale e di business, ma servono anche scelte comportamentali individuali per far rendere al massimo il cibo che produciamo. Non dimentichiamo che tra gli obiettivi dell’agenda 2030 il punto 3 del target 12 mira a dimezzare lo spreco pro-capite e ridurre le perdite di cibo nella produzione. Un primo importante passo sarebbe iniziare a sovvertire la dittatura dicotomica del “bello quindi buono” che ci ha indotto a cadere nella trappola dello scarto dove invece spesso il buono si nasconde.

Ancora una volta siamo di fronte a un’evoluzione che sarà possibile solo se partirà da noi stessi. Se comprenderà la nostra dimensione di essere umano radicato nella sua origine e guidato da una vocazione. Abbiamo per anni creduto di poter vivere come se il nostro pianeta potesse offrirci risorse illimitate, come se fosse un soggetto passivo a nostra disposizione, ora, dal modo in cui ci adatteremo a questa nuova epoca dipenderà il destino futuro della nostra specie. È essenziali quindi affrettarci a capire che il pianeta si evolverà indipendentemente dalla nostra capacità di fare altrettanto.

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