Nel 2015 a Parigi gli stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si impegnarono a limitare entro la fine del secolo l’aumento delle temperature di 2 gradi aggiungendo anche un ulteriore obiettivo, più ambizioso, di restare entro 1,5 gradi. Ma a quanto pare gli impegni presi non producono risultati in linea con gli impegni siglati. Infatti, gli esperti delle Nazioni Unite che hanno esaminato i piani dei 191 paesi aderenti hanno decretato che se anche venissero rispettati alla lettera il risultato sarebbe un aumento delle emissioni del 10% nel 2030. Il che proietterebbe per fine secolo un aumento di 2,7 gradi. Altro che riduzione.
Certo, vi sono paesi che hanno già aggiornato i propri impegni, come ad esempio Usa e Unione europea, se potessimo considerare solo queste due realtà ci sarebbe una riduzione del 12% delle emissioni entro il 2030. Purtroppo, però i loro sforzi non sono sufficienti soprattutto in considerazione del fatto che quelli di Cina e India non lo sono in una forma più ampia e grave. Perché? Secondo gli esperti la causa è di natura finanziaria: molti paesi a basso reddito sarebbero pronti a ridurre le proprie emissioni solo in cambio di fondi e finanziamenti.
Nel frattempo, il declino degli ecosistemi avanza a ritmi mai visti. Secondo l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes) il 75% degli ambienti terrestri è gravemente alterato e fino a un milione di specie degli otto milioni esistenti sulla Terra è a rischio di estinzione, il tutto a causa delle attività umane.
Difficile non condividere il commento del presidente sir Robert Watson quando legge questi dati non solo come il segno di un crescente degrado degli ambienti naturali, ma anche e soprattutto come autocannibalismo, poiché miniamo le fondamenta stesse delle nostre economie. È un fatto di salute, sicurezza alimentare e dunque di qualità della vita, visto che il rischio è non poter più garantire servizi fondamentali come l’acqua pulita, l’impollinazione alla base dell’agricoltura o la presenza di pesci nei mari.
Tutte funzioni naturali, queste, che essendo alla base dell’attività di tutta quella moltitudine di imprese che si muovono nei settori che vanno dalla silvicoltura al turismo, fino all’agroalimentare, hanno ovviamente un enorme valore economico. Secondo le stime del World Economic Forum sono 44mila miliardi di dollari a dipendere in diversa misura dalla natura. Più della metà del Pil mondiale. Allora il grave tema diventa d’importanza rilevante anche per gli operatori finanziari che in queste imprese investono già o potrebbero investire.
Tuttavia, anche se gli operatori finanziari hanno consapevolezza delle sfide che il tema biodiversità sta ponendo, questa consapevolezza deve ancora tradursi in azioni concrete. Se infatti oltre la metà degli investitori intervistati da una ricerca di Responsible Investor Research e Crédit Suisse ritiene che la biodiversità sarà, da qui al 2030, uno dei temi principali per la comunità finanziaria e il 55% pensa di affrontare l’argomento entro la fine del 2022, in realtà mancano di dati e metriche, hanno difficoltà a valutare adeguatamente il capitale naturale e non hanno sufficienti competenze interne sul tema.
I prossimi anni saranno dunque decisivi, ma c’è da chiedersi: come si può pensare di valorizzare gli asset finanziari se non si valorizza e non si sviluppa costantemente il proprio capitale umano? Personalmente non conosco altro modo che non passi dall’educazione. L’educazione abbraccia in maniera olistica la materia esperienziale di cui siamo fatti e oggi più che mai e con sempre maggiore urgenza serve acquisire nuove competenze e conoscenze, sviluppare maggiore sensibilità e individuare – e possibilmente anticipare – le esigenze della società, soddisfacendole.