Kitchen StoryTovagliolini e sogni da impastare

Per il terzo numero della nostra newsletter su cucine e design abbiamo intervistato Sigrid Verbert, autrice, giornalista, fotografa e artigiana ceramista

Sigrid Verbert, belga di nascita ma romana di adozione, ha vissuto molte vite: autrice di libri di cucina, giornalista, fotografa, nonché food blogger antelitteram (il suo seguitissimo blog, Cavoletto di Bruxelles, risale al 2005), oggi è un’artigiana ceramista. L’abbiamo intervistata per il terzo numero di Kitchen Story, la newsletter firmata da Claudia Saracco che racconta le cucine, chi le abita e chi le progetta

Quali elettrodomestici usi per cucinare?
Uso molto il forno, ma forse più del forno uso a oltranza il food processor: vivo di burro di mandorle e benché le bambine non siano più piccolissime ancora frullo molti ingredienti, verdure soprattutto –  incorporandole dentro a polpette, polpettoni e sughi vari (spero che le mie figlie non leggano!). L’altro piccolo elettrodomestico che uso moltissimo è l’impastatrice, entrambi di Kitchen Aid e un bel po’ anziani, credo abbiano sui 12 anni ormai: non passa una settimana senza pane a lievitazione naturale, tortillas, pizza, panini, muffins, oltre a torte e cupcakes colorati per i compleanni. Insomma toglietemi tutto ma non la mia impastatrice!

Dove tieni gli accessori e le stoviglie che usi per cucinare/fotografare? Svelaci il tuo segreto!
Quando cucinare e fotografare costituiva il mio lavoro quotidiano avevo una stanza adibita a studio con tanti scaffali che ospitavano piatti e accessori vari per la tavola. Non avendone più bisogno ho regalato molto e ho conservato solo i pezzi ai quali ero più affezionata. Oggi ho una collezione di dimensione normale per uso casalingo anche se è tutto molto spaiato: più che un servizio è una felice accozzaglia di pezzi singoli che uso nel quotidiano più un servizio di piatti vintage Spode, come quelli che usava mia nonna, per i giorni di festa.

Immagina di ospitarmi nella tua cucina per un caffè: cosa mi offriresti di buono?
Molto probabilmente una fettina di torta con farina di mandorle e limone, farcita con la mia marmellata di more: sono rientrata da poco dalla Calabria e metà della mia dispensa è riempita di conserve fatte con frutta raccolta in contesti incontaminati!

Cosa c’è in questo momento nel tuo frigo?
Latte, latte di soia, diversi lievito madre, zucchine, melanzane, pomodorini, un pezzo di Parmigiano, tofu, mirtilli, delle crêpe fatte ieri, marmellata, uova, burro di mandorle, yogurt greco, diversi contenitori di vetro con avanzi di cucina (polpette di spinaci e ricotta, pesto di pomodorini e pistacchi), salsa di soia, sciroppo d’acero, delle uova Kinder che stanno lì da Pasqua: non chiedermi perché…

Hai tre bambine: ci racconti qualche aneddoto in cucina con loro?
Questa estate, prima di partire per una settimana al campo scout, il primo viaggio senza il resto della famiglia, la mia decenne ha insistito di poter fare il tiramisù e la pizza la sera prima della partenza. La pizza fatta e condita dalle bambine è un’eredità molto positiva che deriva dal lockdown del 2020, un modo per tenerle impegnate nel weekend e loro si sono davvero affezionate a questo esercizio. Ho trovato tenero che abbia scelto quei cibi per darsi un senso, un sapore di casa, prima di andare via. Poi ovviamente la settimana è volata e lei si è divertita come una matta.

Com’è nata la passione per la ceramica?
Vivevamo a New York in quel periodo – era il 2016 mi pare – e già da un po’ vedevo sulle riviste di cucina dei piatti con una componente organica molto forte. Ero molto attratta ma non capivo perché. Questa cosa andò avanti per un po’, poi un giorno trovai, credo sulla rivista Food & Wine, un piccolo articolo dedicato a una giovane ceramista che riforniva diversi ristoranti in California, con dei piatti, appunto, proprio come quelli che mi avevano colpito, grezzi, con qualche imperfezione, insomma non fatti con lo stampino ma pieni di carattere, bellissimi. E leggendo quel pezzo ho capito che quello che mi colpiva era la componente del fatto amano. Ho saputo che l’arte della ceramica si poteva imparare e sono rimasta folgorata. Il giorno dopo sono entrata in uno studio di ceramica vicino casa, su Broadway, e mi sono iscritta a un corso di tornio. Da quel giorno non ho più smesso. Poter fare con le tue mani i piatti sui quali servi il cibo è fantastico e utilizzare ceramiche fatte a mano è un modo per ricollegarmi a millenni di storia e artigianato umano e, in finis, con la terra e la nostra identità naturale.

Da quando lavori la ceramica è cambiato qualcosa nel tuo approccio alla cucina?
Penso che sia la cucina a illuminare il modo in cui faccio ceramica. Per esperienza e gusto personale so come voglio i recipienti in base all’uso che ne faccio – anzi agli usi – perché a onor del vero non amo riempirmi la cucina di gadget, mi piacciono i pezzi versatili che possono adattarsi a vari contesti. In compenso mi colpiscono sempre i paralleli fra le due attività: si impasta l’argilla come si fa con una pagnotta, spesso uso i tagliabiscotti per ritagliare formine di argilla, si cuoce in forno (anche se quello per la ceramica arriva a 1240° C e ridurrebbe in cenere qualsiasi cibo), gli smalti si assemblano seguendo vere e proprie ricette basate su proporzioni chimiche e tutti gli ingredienti si misurano con la bilancia digitale, come ho sempre fatto in cucina. E poi entrambe le attività chiedono concentrazione e funzionano, almeno per me, come degli esercizi zen.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ah no no no, non ho prossimi progetti! Il sogno di questi ultimi anni era di poter avere, un giorno, uno studio di ceramica che fosse aperto al pubblico: negli ultimi anni ho lavorato nel garage di mia suocera, gelido d’inverno e infestato di zanzare d’estate, e sono molto grata di averlo potuto utilizzare però ci voleva davvero determinazione per resistere in condizioni del genere. Sognavo un luogo che mi somigliasse (avete indovinato: minimalista/nordico), nel quale lavorare al tornio, cuocere le mie ceramiche, organizzare le mille polverine dei miei smalti e chiacchierare con i passanti o ricevere persone venute a provare il tornio proprio come avevo fatto io un giorno, entrando per la prima volta in uno studio. Questo luogo l’ho aperto a giugno, a Roma, in zona San Pietro e fra allestimento, vacanze scolastiche e quant’altro, sto iniziando a lavorarci per davvero soltanto ora. Quindi nell’immediato il mio progetto è di approfittare degli orari scolastici per poter finalmente tornare a produrre pezzi e finalizzare ordini in attesa. Poi una volta arrivato a un ritmo di crociera ci saranno anche alcune ore settimanali dedicate a corsi per adulti e workshop per bambini. Più che un progetto avrei un desiderio per il futuro: mi piacerebbe immensamente collaborare con uno chef e creare a quattro mani i piatti pensando ai cibi che andranno serviti.

Questa intervista è parte della newsletter dedicata al design di Gastronomika: volete riceverla? Ci si iscrive da qui.

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