Quando sei un personaggio di un cartone animato che finisce per essere venduto sotto forma di zainetto in autogrill, l’ultima cosa che devi aspettarti è che si parli sempre bene di te.
Io odio Bing e so di non essere la sola. Quasi tutti i genitori hanno poca simpatia per quei cartoni che i figli guardano a ripetizione, perché la routine è una cosa che piace ai piccoli, mica a noi grandi che se facciamo la stessa cosa per tre volte di fila sentiamo il desiderio di lanciarci dalla più vicina finestra. È dunque normale odiare un personaggio che vedi nel salotto di casa tua per buona parte dei pomeriggi, non c’è nulla di male. Però è diverso dall’odiare proprio lui, per quel che è e quello che rappresenta. Io odio proprio lui, Bing, il coniglietto nero con salopette rossa, voce lamentosissima, che cade in continuazione.
Come molti cartoni animati, anche “Bing“ prende vita da una serie di fortunati libri, disegnati e scritti dall’inglese Ted Dewan, i cui diritti sono poi stati acquisiti nel 2014 da Acamar Films e da lì il successo mondiale. Da noi è approdato prima su Rai Yoyo (che è uno dei canali migliori per i cartoni animati, ne parlerò spesso), poi l’ha preso qualunque altra emittente e il numero di stagioni ed episodi sono ormai incalcolabili.
Bing vive in una bella casetta del Nord Europa insieme a Flop, un pupazzo di pezza con una voce da psichiatra infantile che gli fa da tutore. Non ci sono adulti nella cittadina, ma solo piccoli animaletti (l’elefantina Sula, il panda Pando sempre in mutande) con i loro tutori pupazzi, di stazza inferiore. Sembra un orfanotrofio o un grande asilo, e ti chiedi: «Dove sono i genitori di questi bambini lasciati alle cure di pupazzi senza amore, che solo insegnano e correggono?». Qualcuno azzarda: non sono i tutori, ma le anime dei personaggi, e in effetti tanto Flop quanto Amma, tutrice di Sula, hanno fattezze simili a quelle dei bimbi-animali di cui si prendono cura.
In molti cartoni, a dire il vero, mancano le figure genitoriali e a volte non ci fai tanto caso (come in “Masha e Orso“), ma in “Bing“ l’assenza si fa desolante. Al coniglietto, che può essere visto come un bimbo di quattro o cinque anni, accadono cose normali e impara cose semplici e sempre, sempre, c’è qualcosa che non gli sta bene. Non fa i capricci, si lamenta e basta. Non sa fare nulla, non ha intraprendenza né iniziative di rilievo, ma tutto gli viene insegnato da Flop, che lo riprende di rado e sempre con pazienza.
Non c’è conflitto, nel mondo di Bing, non c’è avventura. Non è come Pimpa che esplora, viaggia, si muove con autonomia fra le cose della vita; Bing non è autonomo, ha sempre bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare, quando, come. È come quei bambini a cui i nonni dicono, al parco, di non correre: impaurito a priori, dunque bloccato. “Bing“ è la dimostrazione che esistono adulti che danno per scontato il fatto che i piccoli non sappiano fare le cose e che tutto gli vada impartito e che siano bauli da riempire.
Pimpa è nata dalla penna di Altan a metà degli anni 70, un’epoca in cui ai figli veniva lasciata la libertà di essere e divenire non per precisa scelta pedagogica, ma perché ci si faceva meno problemi nel considerare eventuali futuri traumi. Adesso che i genitori sono nel panico educativo («Se lo sgrido diventa un serial killer?», «Se la forzo a mangiare gli spinaci diventa una hikikomori?»), ci si inceppa fra le centinaia di domande e si ritengono i bambini incapaci di intendere e di volere.
I cartoni animati sono uno specchio e quella che riflettono è sempre un’immagine molto precisa del tempo in cui viviamo, per questo oggi un bambino difficilmente saprebbe riconoscersi in Dolce Remì (un vagabondo, anche lui senza genitori, ma lanciato in un’avventura dolcissima, dolorosa e dunque arricchente) mentre più immediata è la corrispondenza con un coniglio nero di ciniglia che, alla fine di ogni puntata, dice di aver fatto una cosa alla Bing: ovvero è riuscito a superare un momento difficilissimo, come quello in cui perde il suo dudù Hoppity Voosh e poi lo ritrova.
Preme infine mettere in guardia i genitori, prima che sia troppo tardi: a un certo punto vi capiterà di guardare un episodio dalla durata di sette minuti in cui Bing e Flop fanno un frullato alla banana e per tutto il tempo si vedono loro due ballare e cantare solamente, in cantilena: «Tu tu tu tu ru tu tu tu: Banana! Tu tu tu tu ru tu!», mentre il frutto viene centrifugato insieme alla nostra pazienza sfinita.
Banana!