Cos’è un popolo senza valori condivisi? Come riconoscere un compatriota se non attraverso una lingua, un panorama geografico e culturale di base in cui si intravede anche il proprio? Alcune di queste conoscenze si imparano a fatica, altre si tramandano, altre ancora sembrano essere nate con noi. La consapevolezza che i cristalli dell’amore di Sailor Moon siano almeno tre è una di queste ultime.
Chi oggi vorrebbe chiamare l’Europa “casa” potrebbe rifiutare di credere che le stelle tra le quali Atlas Ufo Robot – trasformatosi in un razzo missile con circuiti di mille valvole – sprinta e va non possono essere le dodici della bandiera europea. Perché nel Vecchio Continente, a sapere chi sia Ufo Robot sono in pochi. Se da una parte i cartoni giapponesi si sono diffusi in molti paesi d’Europa, seppur con modalità e tempi diversi, l’Italia resta il paese in cui questi penetrarono maggiormente e al di fuori del quale molte citazioni e riferimenti cadono nel vuoto.
Marco Pellitteri, sociologo dei media e docente all’Università di Studi Internazionali di Shanghai, da anni studia la diffusione dell’animazione giapponese in Italia e in Occidente. L’ha raccontata in “Mazinga Nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation dal 1978 al nuovo secolo” e “Il Drago e la Saetta. Modelli, strategie e identità dell’immaginario giapponese”, entrambi editi da Tunué.
Innanzitutto gli albori: quale fu il primo cartone animato giapponese arrivato in Europa? «“La leggenda del serpente bianco”, proiettato nel 1959 nella sezione ragazzi del Festival del cinema di Venezia. Da quel momento cominciarono le distribuzioni di vari cartoni animati cinematografici in diversi paesi, ma quasi sempre episodiche, all’interno di Festival o nelle programmazioni pomeridiane di alcuni cinema».
Per le serie animate invece si dovrà aspettare lo sviluppo dei sistemi radiotelevisivi europei degli anni Settanta e Ottanta. «Il mercato dell’animazione giapponese era florido ma autoreferenziale. I giapponesi erano interessati al mercato europeo, ma temevano che l’Europa non fosse ricettiva dei loro prodotti. Quindi, pur di sbarcare in questo mercato, erano disposti a vendere le serie a prezzi stracciati. I programmatori e distributori europei si accorsero subito dell’opportunità».
L’esplosione delle reti in Italia ebbe numeri unici in Europa: tra il 1978 e i primi anni Ottanta si passò da 250 a circa 400 reti private. Aprire una rete era diventato semplice, ma nessuno sapeva ancora bene cosa metterci dentro: «C’era una necessità enorme di riempire palinsesti e mancavano sia le conoscenze sia i budget sia le idee, quindi si trovarono tre soluzioni: i maghi ciarlatani e le televendite; le telenovelas acquistate dai paesi di lingua spagnola e i cartoni giapponesi».
Per questa ragione l’Italia è il paese occidentale che ha conosciuto il massimo afflusso di cartoni giapponesi: «Quelli trasmessi in chiaro sulle reti tv sono stati almeno 800, se contiamo anche quelli diffusi tramite dvd e cinema arriviamo a cifre astronomiche». Ciò significa che serie che qualunque trentenne o quarantenne italiano conosce nella maggior parte degli altri paesi europei non son mai state trasmesse in tv. È il caso di “Sasuke, il piccolo ninja” o “Ryu, il ragazzo delle caverne”, o la maggior parte delle serie robotiche: “Jeeg Robot, Uomo d’acciaio”, “Il grande Mazinga”, “Baldios”, “Getter robot”, “Gundam”.
Ci furono persino cartoni animati giapponesi il cui successo in Italia superò quello ottenuto in Giappone. «È il caso di “Kiss me Licia”, che su Italia 1 ebbe un tale seguito che la rete realizzò anche tre serie di telefilm con Cristina d’Avena nei panni di Licia».
Inizialmente Mediaset non faceva distinzione tra i generi, poi cominciò a prediligere le serie più soft e sentimentali. «La selezione non era fatta con intento pedagogico ma per politica editoriale: si cercava di eliminare qualsiasi attrito con i genitori degli spettatori elettivi», spiega Pellitteri. «Le altre reti private invece non si fecero problemi nel trasmettere serie d’azione o più cruente, molte in replica, acquisite da altri canali». Tra queste “Jeeg Robot Uomo d’Acciaio”, “Mazinga Z” e “Il Grande Mazinga”, “Ken il guerriero”.
L’Italia non è solo il paese occidentale in cui l’animazione giapponese è penetrata maggiormente, ma anche quello in cui la provenienza dei cartoni non è mai stata diluita o nascosta. «Fin da subito, i cartoni animati giapponesi sono stati pubblicizzati in pompa magna – da giornali, Rai, reti private – come tali. Nelle sigle comparivano i titoli giapponesi in bella vista e nei primi adattamenti anche i nomi propri non venivano mutati: non era un problema che i personaggi si chiamassero Hiroshi o Takeshi».
C’era maggior rispetto per il prodotto e per i produttori? «No, era semplice pigrizia: c’era troppo lavoro da fare e non era ritenuto necessario. Solo negli anni Ottanta, quando entrò in campo Fininvest, che aveva più disponibilità e mezzi, cominciarono gli adattamenti, ma sempre meno che in altri paesi. Furono cambiati i nomi di alcuni personaggi, ma i titoli all’inizio e alla fine e gli stilemi dei cartoni giapponesi, ormai familiari al pubblico italiano, non lasciavano dubbi sulla provenienza».
Negli altri paesi europei, in generale, l’origine giapponese veniva diluita, quando non addirittura nascosta. «In Francia i primi cartoni – “Heidi”, “Candy candy” – vennero presentati come giapponesi. Ma in seguito si fece più attenzione: “Holly e Benji” diventò “Olive et Tom”, “Cara dolce Kyoko” era “Juliette je t’aime”, “Mila e Shiro” “Jeanne et Serge”».
«Alcuni cartoni giapponesi arrivarono in Spagna, Francia e Germania proprio tramite Fininvest, che negli anni Ottanta aprì in questi paesi rispettivamente Telecinco, La Cinq e Tele Fünf. A volte la stessa Fininvest, che in Italia trasmetteva cartoni senza nasconderne l’origine, all’estero li adattava, deregionalizzava, modificando nomi, titoli e sopprimendo i credits. Per decenni gli spettatori francesi non seppero che molti cartoni che guardavano venivano dal Giappone».
Poiché i distributori internazionali non erano molti e lavoravano sugli stessi paesi, capitava che si rivendessero a vicenda i diritti delle stesse serie o riciclassero la melodia della sigla di una serie per un’altra. «È il caso della melodia della terza serie di “Lupin III” in italiano, che in Spagna è stata utilizzata per “Oliver y Benji”, oppure quella italiana di “Occhi di Gatto” utilizzata in Francia per “Sandy Jonquille” (“Hello, Sandybell” in Italia)».
In Germania, dove si faceva particolare attenzione a evitare per i bambini contenuti violenti che raffigurassero o glorificassero le armi, la serie di Goldrake non fu trasmessa. «In compenso nel 1979 fu distribuito un film basato su Goldrake chiamato “Goldorack” la cui canzone portante aveva il motivo che in Italia ha la sigla del “Grande Mazinga”».
Frequenti anche le coproduzioni: nell’84 la Rai, sotto la supervisione di Hayao Miyazaki, coprodusse “Il fiuto di Sherlock Holmes”. “Ruy, il piccolo cid” è una coproduzione nippospagnola, mentre “Barbapapà”, tratto da un fumetto francese, fu una coproduzione anglo-giapponese.
A un certo punto i prodotti giapponesi cominciarono a venir considerati concorrenza “sleale” per il costo irrisorio e di livello qualitativo infimo. Nel 1989-90 la Francia approvò la legge delle quote, che vincolava le emittenti francesi in chiaro ad acquisire e trasmettere solo una porzione minoritaria di produzioni extraeuropee. «Quella che era stata una scelta degli stessi produttori e distributori europei, che negli anni fecero man bassa delle serie giapponesi acquistandole a pacchi, d’un tratto fu vista come un’invasione».
Cosa accadeva nel resto d’Europa? «Nei paesi del Nord c’è sempre stata una politica pedagogica più accorta, tendente al controllo e alla varietà. L’afflusso di serie tv giapponesi è stato più moderato ma ci sono state anche interessanti coproduzioni. Per esempio per Moomin, personaggio famoso in Finlandia».
«Anche nei Paesi Bassi e in Belgio arrivarono molte meno serie giapponesi per una questione di gusti, politiche pedagogiche e per un certo protezionismo che cercava di stimolare la produzione locale. Qualcuno nei paesi balcanici invece captava i segnali delle reti televisive italiane: molti romeni o albanesi di 30-50 anni oggi parlucchiano italiano anche grazie ai cartoni giapponesi che hanno visto da piccoli». In italiano, ovviamente.
Nel Regno Unito sanno almeno chi è Heidi? «In Gran Bretagna sono arrivate più serie giapponesi di quanto si pensi, ma sono state distribuite quasi solo tramite videocassette o nei cinema e non hanno mai raggiunto grandi pubblici. Solo negli anni Novanta c’è stato il boom del film “Ghost in the Shell”».
«In compenso il Regno Unito è stato interessato da un altro fenomeno interessante. Negli anni Sessanta e Settanta spopolavano i “Thunderbirds”, un telefilm in cui pupazzi animati e astronavicelle venivano mossi con dei fili su diorami con scenari futuristici e contatti elettrici in tempo reale. Questo prodotto ebbe successo anche in Giappone e ispirò fumettisti e animatori giapponesi, quindi ritroviamo questa stessa estetica nei cartoni di animazione fantascientifica giapponese degli anni Settanta e Ottanta, per esempio “Atlas Ufo Robot” e “Mazinga”».
I paesi dell’est Europa, oltrecortina, sono sempre stati caratterizzati da un forte nazionalismo culturale e da un sistema dei media più fragile, non stupisce quindi che l’animazione giapponese qui sia arrivata solo dopo il crollo del blocco sovietico. «Negli anni Ottanta in Unione sovietica arrivò qualche manga per caso, perché alcuni funzionari e diplomatici russi, rientrando dalle loro missioni in Giappone, portavano come regalo ai figli riviste a fumetti», spiega Pellitteri.
«In Europa occidentale la dinamica di diffusione è stata mainstream: l’animazione entrò cioè dalla porta principale, la tv, che è la modalità di distribuzione e fruizione generalista, interclassista e interculturale per eccellenza».
«Nei paesi dell’est invece, per esempio la Polonia o più recentemente la Russia, questi disegni animati arrivarono in ritardo. La loro diffusione, tra i tardi anni Novanta e i 2000, avvenne mediante una dinamica subculturale e non mainstream. Comunità di adolescenti e giovani adulti le scoprirono dal basso tramite manga, tecnologie telematiche, distribuzioni clandestine di videocassette, e cominciarono a farle circolare tra di loro».
Alcune dinamiche di diffusione subculturale nacquero anche in Italia e in Europa a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. «In quel periodo ci fu una netta diminuzione del flusso di animazione giapponese sulle reti a grande diffusione e nessuno pubblicava ancora manga. Gli ex bambini diventati ragazzi, orfani dei cartoni giapponesi, cercavano prodotti simili e crearono il mercato dei manga. In altre parole risalirono le rapide mediali del prodotto, dagli anime ai manga».
Ci sono cartoni animati giapponesi che con modi e tempi diversi han finito per essere conosciuti in tutta Europa? «Col tempo, attraverso le reti satellitari che si potevano concedere una maggiore libertà, e attraverso i tentativi giapponesi di espandersi anche in nuovi mercati, i cartoni sportivi sono penetrati in tutta Europa: “Holly e Benji” e “Mila e Shiro”».
«I due casi più eclatanti degli anni Ottanta e Novanta invece sono “Dragon Ball”, che in Spagna è stato adattato addirittura in tre lingue diverse: castigliano, catalano e lingua basca; e Sailor Moon, che è stata la scintilla che ha fatto nascere l’amore per gli anime in paesi come Germania, Polonia e Russia. Poi negli anni 2000 “All’arrembaggio/One piece”, “Naruto” e “Detective Conan”».
Non dimentichiamo i Pokemon? «Pokemon è un prodotto fortemente ibridato: è nato nel 1996 in Giappone, nel ’99 la filiale indipendente americana della Nintendo – Nintendo of America – lo riadatta pesantemente per il palato americano e decide di fare una campagna di diffusione mondiale del franchise, lanciandolo in Europa nel 2000».
«La stessa cosa era accaduta ai Power Ranger dal 1993, che originariamente era un telefilm di supereroi dal vero giapponese, poi acquistato da Haim Saban, americano di origine israeliana, che creò scene con attori americani interpolate a quelle originarie del telefilm giapponese e poi rivendette la serie così riconfezionata a moltissime emittenti americane e ai mercati europei».
A posteriori, possiamo davvero dire di aver corso il rischio di venir colonizzati da “Kiss me Licia”, che l’uovo del nostro Calimero diventasse la frittata di Ken il guerriero? «Se partiamo dal presupposto – fallace – che le culture siano e debbano rimanere impermeabili le une alle altre, allora qualsiasi innesto dall’esterno dovrebbe essere visto come pericoloso, anche Topolino o Braccio di Ferro. Poiché la mutua permeabilità delle manifestazioni culturali (specie quelle popolari e pop) è un aspetto a loro congenito e auspicabile, l’immaginario giapponese non ha “colonizzato” l’Italia ma l’ha visitata ed è stato adottato da uno stuolo di spettatori e lettori, anche con casi di vera e propria naturalizzazione e addomesticazione».
«La categoria gramsciana del nazionale-popolare può spiegare questo paradosso: Goldrake, Candy e altri eroi giapponesi riconosciuti come tali sono anche, al contempo, rappresentativi della cultura popolare italiana odierna, pur nella loro alterità. Un’alterità che tuttavia non è nemmeno così accentuata, dato che certi valori che esprimono ci sono molto familiari».