Green spinLa lotta ai cambiamenti climatici ha bisogno di una “narrazione” migliore?

Il riscaldamento globale è diventato un’arma retorica della diplomazia, ma per combatterlo dovremmo parlarne diversamente, iniziando ad affrontare i problemi della sua mancata “popolarizzazione”: il rifarsi a fenomeni – e numeri – troppo grandi per essere compresi

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Il cambiamento climatico è probabilmente la più grande minaccia che la nostra specie si trova ad affrontare. Che lo sia per la sicurezza globale, per esempio, lo sostengono anche le Nazioni Unite. Per questo quello del clima è un problema non soltanto ambientale ma anche politico, sociale ed economico. Il punto è anche: stiamo riuscendo a raccontarlo come tale?

Secondo Solomon Goldstein-Rose, uno degli attivisti ambientali più in vista dello scorso decennio, lo facciamo male. Non solo, in un articolo pubblicato su Scientific American l’attivista e politico statunitense dice che il problema di come parliamo del clima ha seri effetti su come agiamo, poi, per cercare di risolverlo, il problema climatico. La sua idea è che non serva invitare gli altri paesi a «fare la loro parte», perché in certi casi è un atteggiamento inutile: «Possiamo provare per tutto il tempo che vogliamo a convincere l’India, per esempio, a “fare la sua parte” adottando sistemi più costosi e costringendo a tornare in condizioni di povertà persone che solo di recente hanno avuto accesso all’energia elettrica. Non succederà».

Il punto, sempre secondo Goldstein-Rose, è che il problema del riscaldamento globale è diventato un’ennesima arma retorica della diplomazia internazionale, un nuovo tema su cui accusarsi a vicenda, ma questa non è la strada giusta. Di riscaldamento globale dovremmo parlare diversamente. Ma come?

Vale la pena fare un passo indietro. A prescindere dai nostri errori c’è un motivo preciso per cui il riscaldamento globale è così difficile da raccontare nel modo giusto, cioè in maniera efficace, convincente, chiara e priva di strumentalizzazioni, litigi inutili e notizie false. Il motivo è che parliamo di qualcosa di troppo vasto, e quindi sfuggente. 

Il riscaldamento globale, e più in generale i problemi climatici, sono problemi così ampi che, semplicemente, il nostro cervello non ha una capacità di calcolo sufficiente a immaginarli. Questa nostra tara mentale ha un nome specifico, usato soprattutto in psicologia e scienze cognitive, “scope neglect“. Riassumendo al massimo: non abbiamo le capacità cognitive sufficienti per immaginare davvero gli effetti di un problema così vasto, che riguarda miliardi di persone, centinaia di nazioni e decine di migliaia di ecosistemi e territori diversi.

Per parlare, bene, della crisi climatica dovremmo affrontare anche un altro problema. E cioè che del riscaldamento globale non abbiamo in mente un’immagine riconoscibile. Prendiamo il terrorismo jihadista: è un fenomeno che risveglia nella nostra mente alcune immagini riconoscibili e celebri, come gli arei che affondano nelle Torri gemelle newyorkesi l’11 settembre del 2001. Oppure le decapitazioni dei prigionieri dello Stato Islamico filmate appositamente per shockare, per rimanere impresse nella memoria collettiva. Il riscaldamento globale, al contrario, non ha un’immagine così iconica che lo racconti, pertanto non ci sembra così pericoloso anche se fa molte più vittime e danni.

Al contrario, quello climatico è un fenomeno che ha come unica rappresentazione possibile numeri tanto grandi quanto astratti, calcoli probabilistici enormi e stime altrettanto inafferrabili. In altre parole, quando leggiamo articoli in cui si parla di “1500 miliardi di tonnellate di CO2” non abbiamo alcun riferimento per capire, davvero, quei numeri. Sono grandi o sono piccoli? Non riusciamo a intuirlo. Nella nostra vita quotidiana non ci sono dei riferimenti che ci aiutino a metterli in prospettiva, che ci facciano capire quante siano, sul serio, 1500 miliardi di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera. Al contrario tutti riusciamo a immedesimarci in chi si trova suo malgrado vittima di un attentato jihadista e provare un terrore paralizzante.

Naturalmente il riscaldamento globale non è l’unico problema che sottovalutiamo, e raccontiamo male, per via della sua sfuggevolezza e dei nostri bias cognitivi. Anche la pandemia in corso ricade nella stessa categoria. Anche per raccontare la pandemia abbiamo fatto sforzi enormi per capire numeri enormi, proiezioni, curve e probabilità. E anche in quel caso, in assenza di immagini sufficienti a rendere conto della portata dell’evento, abbiamo fatto ricorso all’opinione di esperti e scienziati.

Eppure c’è chi pensa che nonostante tutte queste difficoltà il riscaldamento globale potrebbe essere raccontato in modo efficace. Lo pensano, tra gli altri, Friederike Otto e Kim Stanley Robinson. La prima è membro dell’Environmental Change Institute dell’Università di Oxford e professore associato in Global Climate Science, il secondo è un apprezzato scrittore di fantascienza. Insieme, in una lunga conversazione pubblicata su Deutsche Welle, insistono su un modo per farlo: usare la forza delle storie. Parole come “storytelling” e “narrazione” sono spesso associate ai metodi persuasivi con cui gli autori del cinema o della pubblicità catturano la nostra attenzione. Ma secondo Otto e Robinson sono strumenti che potrebbero essere usati anche nella divulgazione. «Per rendere la scienza utile bisogna raccontarla all’interno di una narrazione» scrive Otto, e bisogna puntare soprattutto sulle cose «che si possono dire da un punto di vista scientifico e che sono rilevanti per le domande che si pone chi prende le decisioni importanti».

Le storie però non sono utili solo per informare e convincere i politici e i cosiddetti decision-makers. Possono essere utili per arrivare a tutti. Il racconto fantascientifico, per esempio, è un ottimo modo di raccontare le possibilità che la specie umana affronta col riscaldamento globale. Secondo Robinson è utile ed efficace perché «la fantascienza è la realtà che ti prende a schiaffi. È il realismo del nostro tempo». E «non è affatto di nicchia». Non lo è più perché, secondo l’autore, man mano che il problema climatico diventa sempre più presente nelle vite delle persone queste diventano ancora più consapevoli, e quindi permeabili alle possibilità contenute nelle storie.

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