Riuscirà la Fiom a riprendersi il cuore oltre l’ostacolo dove lo ha lanciato con la proclamazione di otto ore di sciopero contro il disegno di legge di bilancio? Le iniziative di mobilitazione concordate dalle segreterie confederali sono segnate da una linea di maggiore cautela e non sbattono la porta in faccia alle disponibilità manifestate da Mario Draghi a continuare un confronto sia pure nell’ambito di un ripristino della normalità della riforma Fornero.
Anche se è difficile attribuire ai tre leader confederali una capacità di riflessione autocritica sulla sostenibilità della piattaforma sindacale in materia di pensioni, non è escluso che abbiano avvertito l’isolamento in cui si trovavo anche in quest’occasione, dopo quello in cui si erano infilati a proposito dell’introduzione del green pass. In particolare Maurizio Landini, seguito a ruota da Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri, aveva dato inizio alla polemica, condotta per mesi, fino a trincerarsi nella richiesta della gratuità dei tamponi indicati come la strada maestra della prevenzione. Tanto che l’irriducibile leader della Fiom Francesca Re David ha commentato così, in un’intervista, l’aggressione squadrista alla sede della Cgil il 9 ottobre: «Non capisco l’assalto alla Cgil, dato che noi non eravamo d’accordo col green pass».
Ma ben presto la compagnia dei no vax è divenuta insostenibile: il governo ha tirato dritto e i sindacati si sono defilati, tranne, qua e là, qualche sbavatura periferica. Con il disegno di legge di bilancio si è presentato il nodo delle pensioni, che Draghi ha sciolto con il consueto senso pratico, riuscendo a far convergere sulle soluzioni trovate l’intero schieramento di maggioranza. L’intesa raggiunta è solida, proprio perché si limita a definire i trattamenti previsti nell’anno prossimo. Così, tutte le parti possono definirsi soddisfatte sia delle mezze sconfitte che delle mezze vittorie.
Draghi può dire a Bruxelles di aver confermato che quota 100 alla scadenza non sarebbe stata rinnovata e nello stesso tempo di aver innalzato di due anni il requisito anagrafico con quota 102 (64 anni di età + 38 di versamenti). Matteo Salvini può vantarsi di aver impedito, almeno per un anno, che, scaduta quota 100, si andasse in pensione già dal 1° gennaio prossimo a 67 anni, per chi non potesse far valere i requisiti per il trattamento anticipato ordinario a prescindere dall’età (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne fino a tutto il 2026), che è stata e rimarrà la via d’uscita più battuta (anche a fronte di quota 100). Per non parlare dell’estensione ad altre categorie, ritenute disagiate, dell’accesso all’Ape sociale a 63 anni di età con 36 o 30 anni di anzianità contributiva a seconda delle condizioni lavorative, personali e familiari tutelate.
In realtà, sulle pensioni la maggioranza ha raggiunto un accordo che ha davanti a sé una durata destinata, al massimo, a giungere alla fine della legislatura (un evento che potrebbe determinarsi persino dopo l’elezione del presidente della Repubblica). In tale contesto i sindacati si sono messi fuori gioco da soli con una piattaforma assurda e antistorica. Tutti assieme appassionatamente hanno segnato un altro autogol come quello effettuato nella rete del green pass. Ma questa volta l’isolamento è pressoché totale, al punto che non troveranno – come è sempre avvenuto quando si tratta di pensioni – una sponda tra le forze politiche (tranne le frazioni dell’estrema sinistra e forse Fratelli d’Italia).
Dal Partito democratico – oltre che da Enrico Letta – sono venute prese di distanza significative. In una lettera su Il Foglio, Lia Quartapelle ha svolto delle considerazioni ineccepibili: «Sono passati quasi dieci anni – ha scritto la giovane parlamentare del Pd – dall’approvazione della Fornero sulle pensioni, eppure ci sono pezzi di politica e società che ancora cercano di tornare indietro rispetto a quella decisione. Non di correggerla (come venne giustamente fatto per affrontare il nodo degli esodati), ma di abolirla». In sostanza, Quartapelle condivide la linea di Draghi: tornare alla riforma del 2011 dopo le deroghe giallo-verdi significa ripristinare la normalità. E aggiunge: «Questo atteggiamento è ancor più delittuoso (sic! ndr) se si pensa che in questi mesi il nostro paese dovrebbe essere impegnato in uno sforzo collettivo che va sotto il nome di Nex Generation Eu».
Sullo stesso timbro la vice segretaria del Pd nonché presidente della Commissione bilancio del Parlamento europeo, Irene Tinagli. IAn una intervista a Il Foglio, ha avvertito che non si può tornare indietro e non si può farlo in nome della sostenibilità. «Chi vuole tornare indietro vuole mandare il paese in bancarotta». Ciò non significa che non siano necessari correttivi per tutelare meglio i lavoratori impegnati in mansioni gravose, come è prevista dal disegno di legge presentato dal governo. Ma «in Italia ci si è ammalati troppe volte di pensionite» ovvero dell’idea che tutti i problemi si possono risolvere mandando i lavoratori in pensione.
Dal sindacato e segnatamente dalla Cgil sono venute risposte sgradevoli persino un po’ burine. Ivan Pedretti, segretario generale del potente sindacato dei pensionati (anche lui su Il Foglio) si è spinto ad affermare, in estrema sintesi. «Siamo pronti allo sciopero generale. Prenderei per le orecchie, metaforicamente, la professoressa Fornero per farle vedere i lavori usuranti, in una acciaieria». Peccato che siano previste norme specifiche di tutela dei lavoratori adibiti non solo a lavori usuranti, ma anche disagiati e che – come abbiamo già ricordato – questa platea sia stata molto ampliata nel ddl bilancio.
Ma sempre a proposito dei lavori usuranti l’ineffabile Pedretti (che non ha mai lavorato neppure lui in un’acciaieria) dovrebbe conoscere come è andata questa storia. E come di tutela dei lavori usuranti si sia molto parlato e poco agito. Nel 2010, dopo una serie di iniziative inconcludenti, era stata varate una legge che consentiva, per le tipologie riconosciute, l’anticipo fino a tre anni del pensionamento. Tale legge era finanziata con circa 300 milioni l’anno, quindi non c’era l’assillo delle coperture finanziarie.
Nel 2011 furono presentate 11mila domande di cui solo 3mila accolte perché conformi ai requisiti richiesti. Poi è calato il silenzio: negli anni seguenti il Governo stanziava, in bilancio, puntualmente le risorse ma il Tesoro le recuperava, inutilizzate, a fine anno, senza che i sindacati se ne accorgessero. Così, nella legge di stabilità per il 2016, l’esecutivo decise di stornare parte delle risorse del Fondo usuranti per altre destinazioni, tra le quali l’aumento della no tax area per i pensionati. In sostanza, ben 1,4 miliardi stanziati per anticipare il pensionamento dei lavoratori usurati finirono in economia e da lì vennero stornati per altri scopi. L’inghippo venne in parte rimediato dalla riforma Fornero e ulteriormente modificato con interventi successivi.
Infine, l’indomito Pedretti si rivolge al presidente del Consiglio: «Draghi fa l’uomo solo al comando». Il segretario dello Spi dovrebbe almeno riconoscere che l’attuale governo è il primo, da una quindicina di anni a questa parte, che non ha manomesso, al solo scopo di fare cassa, il meccanismo di rivalutazione automatica delle pensioni vigenti. Infatti, dal 1° gennaio 2022 dovrebbero tornare in vigore le aliquote per fasce di importo del trattamento, che garantiscono l’adeguamento pieno degli assegni all’inflazione per evitare, così, la perdita di potere d’acquisto dei pensionati. Si tratta di una operazione – certamente dovuta in ossequio a un diritto a lungo conculcato – che metterà 4 miliardi nelle tasche dei pensionati.