Assunzioni col contagocceLa crescita record non farà aumentare (per ora) occupazione e salari

Il prodotto interno lordo italiano cresce più di quello spagnolo e tedesco. E questa è una buona notizia. Ma il numero di lavoratori diminuirà dello 0,3% contro il +0,8% della media europea. Tradotto: le imprese si troveranno con più ordini grazie al massiccio incremento degli investiment e preferiranno usare chi è già a loro disposizione, e in precedenza è stato sotto-utilizzato perché in Cassa Integrazione o part time

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Innanzitutto le buone notizie: la crescita del Prodotto interno lordo dell’Italia nel 2021 è sempre più alta, e continua a superare le previsioni fatte solo poche settimane fa. Le tradizionali stime autunnali della Commissione europea ritengono che si potrà arrivare a un +6,2%, meglio del +6% contenuto nella Nota di Aggiornamento al Def (Nadef) pubblicata solo un mese e mezzo fa dal Governo, e soprattutto meglio del +4,2% che Bruxelles aveva pronosticato in primavera.

Si tratta di un record doppio. Non era mai accaduto che le previsioni sul Pil migliorassero nel tempo invece che peggiorare, come invece era quasi sempre successo in precedenza. La crescita italiana del 6,2% sarà migliore di quella media europea e dell’area euro, +5%, di quella della Germania, +2,7% e della Spagna, +4,6%. Solo l’economia francese si espanderà più della nostra. E a oggi pare che risulteremo in media anche nel 2022, con un ottimo +4,3%.

I prossimo anni saranno cruciali per stabilire se dopo il rimbalzo saremo usciti dal declino ventennale che ci condanna a incrementi del Pil sempre più bassi del resto del Continente. Ma anche se tale crescita sarà equilibrata e in cosa si sarà tradotta. Per ora le stesse previsioni della Commissione disegnano un quadro in chiaroscuro. Non tanto per difetti contingenti ma per mancanze strutturali che inevitabilmente influenzeranno anche la fase di espansione che auspicabilmente ci aspetta. In particolare nel mondo del lavoro.

Bruxelles stima che il numero delle persone occupate in Italia non crescerà a livello annuale nel 2021 e anzi si contrarrà del 0,3%, a fronte di un incremento a livello europeo del 0,8%. Al contrario di quanto accadrà con il Pil, in questo caso le nostre performance continueranno a essere peggiori di quelle Ue, in linea con quanto accade da più di 10 anni. Solo l’anno prossimo ci sarà una convergenza con i numeri dei nostri vicini.

Considerando l’occupazione full time equivalent (Fte), ovvero quanti sarebbero gli italiani con un posto se distribuissimo le ore lavorate totali tra occupati a 8 ore a 220 giorni l’anno (su 365), quindi a tempo pieno vediamo che nell’ultimo decennio è cresciuto meno che altrove e nel 2020 è crollato del 10,3%. Ma nel 2021 ha un rimbalzo rilevantissimo, del 5,9%, a fronte del +1,7% nella Ue, e aumenterà più della media europea anche nel 2022 (+4% vs +1,4%) e nel 2023 (+2%vs +1%).

Cosa vuol dire? Non ci sarà un vero aumento del numero degli occupati, ma un utilizzo più intensivo di quelli che già lavorano, e che negli ultimi anni e in particolare nel 2020 sono stati impiegati in modo saltuario, precario, intermittente.

 

Le imprese si troveranno con più ordini grazie al massiccio incremento degli investimenti (+15,8% nel 2021, + 5,8% e +5,6% nel 2022 e 2023) e preferiranno utilizzare lavoratori già a loro disposizione, e in precedenza sotto-utilizzati perché in Cassa Integrazione o part time o reclutati solo per brevi periodi. E procederanno a nuove assunzioni solo con il contagocce.

Questo è dovuto a diverse ragioni.

Un fattore è quel senso di incertezza e di sfiducia verso le previsioni ufficiali da parte delle aziende. Un sentimento che viene da lontano, da 20 anni di crisi e flebili riprese. La consapevolezza di una crescita continua che caratterizzava le precedenti generazioni appartiene ormai al passato, e l’ingaggio di nuovo personale ormai avviene solo quando ogni altro mezzo è stato utilizzato. Si tratta dello stesso atteggiamento che porta all’utilizzo prevalente di lavoro a termine invece che a tempo indeterminato, nonostante il Jobs Act.

Un altro motivo è collegato alla grande precarietà del nostro mondo del lavoro, in cui in tanti sono entrati solo con un piede, rimanendo sulla porta, un po’ dentro, quando le cose vanno bene, e un po’ fuori nei momenti di crisi.

E poi vi è un tema di competenze. Come è possibile che se meno del 60% di chi ha tra 15 e 60 anni è occupato e c’è una platea così ampia tra cui scegliere si deve ricorrere sempre agli stessi lavoratori? Perché ad avere certe capacità ed esperienza sono in pochi in un Paese in cui la formazione, nelle imprese o fuori, non è una priorità e in cui vi è un grande mismatch tra domanda e offerta nel mondo del lavoro.

Questo grande aumento delle ore lavorate, ma non dell’occupazione, ha una conseguenza che sa di già visto: la crescita asfittica della produttività del lavoro, che sarà solo del 0,3% quest’anno e il prossimo, contro il 3,3% nella e il 2,9% nella Ue. Anche nel 2023 il gap sarà presente e ben visibile.

Nel 2022, in particolare, saremo il Paese con l’incremento più basso di questa misura nella Ue e in Occidente. Che invece sarà ai massimi nell’Est e in parte del Sud Europa (Grecia e Portogallo), ovvero laddove ci sono le maggiori fragilità economiche in Europa.

Del resto, poi, lo stesso Pnrr prevede che sarà il settore dell’edilizia quello che trascinerà investimenti e Pil nei prossimi anni, un ambito che non ha mai brillato per produttività. Il risultato finale sarà un incremento dei salari reali inesistente. Questi, anzi, diminuiranno dell’1,2% nel 2021, del 0,5% nel 2022 e del 0,2% nel 2023. Mentre saliranno quasi ovunque negli altri Paesi.

Trattandosi, almeno nel caso dell’Italia, di stipendi orari, l’unico modo per guadagnare di più sarà lavorare più ore, cosa che in tanti faranno, ma non vi saranno in media aumenti a parità di tempo passato al lavoro.

Spesso la stagnazione salariale coincide con un incremento del numero dei lavoratori, come accaduto in Germania dopo le riforme Harz che puntavano in soldoni a questo: meno aumenti in cambio di maggiore occupazione.

Non sarà il caso del nostro Paese, dove invece alcuni anni di crescita saranno utilizzati per guarire dalla precarietà chi già si era dato da fare e si era buttato, in tempi ancora più duri, nel mondo del lavoro.

Questo basterà ad avere un incremento della domanda privata che un tempo ci sognavamo. Salirà del 5,3% quest’anno, del 4,8% il prossimo e del 2% nel 2023. Sarà questa a trainare il Pil, oltre agli investimenti, e, si spera, a generare in seguito anche quei margini e quella produttività che per ora non vedremo. Solo questa potrà essere in grado, finalmente, di innalzare i salari e allo stesso tempo aumentare il numero di italiani con un lavoro.

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