Quasi gollistaIl miraggio della soluzione presidenziale non porta bene né all’Italia né a Draghi

Da Berlusconi a Renzi, la statistica dice che non c’è modo più sicuro di questo per azzoppare le leadership apparentemente più salde. Ma per larga parte della cultura liberale e riformista parlar male del presidenzialismo è peggio che parlar male di Garibaldi (o del maggioritario)

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Nulla dovrebbe suonare più infausto alle orecchie di Mario Draghi e dei suoi estimatori quanto le parole di Giancarlo Giorgetti sull’ipotesi di una curvatura semipresidenziale del nostro sistema, un «semipresidenzialismo de facto» cui si arriverebbe semplicemente con l’ascesa al Quirinale dell’attuale presidente del Consiglio. Non parliamo poi del dibattito che ne è seguito, con l’inevitabile rievocazione di Charles de Gaulle e della Francia del 1958.

Si tratta di un topos del nostro discorso pubblico sin dai primi anni novanta, visto ora come spauracchio ora come miraggio. Molto più spesso come miraggio, a dire la verità. Lo testimoniano anche le reazioni di questi giorni. In particolare quelle di chi alla proposta si dice contrario, come Mara Carfagna, che chiarisce: «Io sono una presidenzialista convinta e mi accontenterei anche del semipresidenzialismo, ma la nostra Costituzione non lo prevede». O Carlo Calenda, che puntualizza: «Sono presidenzialista, ma questo non è il sistema italiano». Del resto, per larga parte della cultura liberale e riformista – per non parlare della destra di ogni origine e provenienza – parlar male del presidenzialismo è peggio che parlar male di Garibaldi (o del maggioritario).

Il fatto è che in Italia una sorta di «presidenzialismo di fatto» c’è già, ed è stato introdotto quando si è consentito di portare sulla scheda elettorale, inserendolo surrettiziamente nel simbolo delle coalizioni, il nome del leader dell’alleanza, producendo così una simulazione di elezione diretta.

Questo è l’unico vero attentato alla Costituzione compiuto in Italia da trent’anni a questa parte, senza che nessuno se ne adontasse, ovviamente in nome dello «spirito del maggioritario» (che è il modo elegante in cui s’intende il contrario di quanto previsto dalla lettera della Costituzione). E ha prodotto una quantità di storture infinite, a cominciare da tutta la retorica populista sui presidenti del Consiglio «non eletti» (come se gli altri lo fossero), per non parlare dell’equiparazione di qualunque crisi parlamentare a un golpe. Per chi non lo ricordasse, ancora pochi anni fa, Silvio Berlusconi andava in televisione sostenendo di avere subito ben «cinque colpi di stato» (a conferma di come un certo fanatismo del maggioritario sia stato in questi anni il più solido puntello del berlusconismo).

Dal 1993 a oggi il numero delle riforme elettorali e istituzionali, dei referendum, delle commissioni bicamerali e monocamerali con cui si è tentato in ogni modo di portare a compimento la «transizione» verso un sistema presidenziale o semipresidenziale, all’americana o alla francese, è pressoché infinito (e rappresentano a mio avviso il principale problema del nostro sistema democratico: perché, come dice il filosofo, nulla ostacola tanto la guarigione quanto il cambiare continuamente medicina).

Non c’è leader politico che al momento del massimo successo non si sia illuso di poter chiudere la partita a suo vantaggio una volta per tutte, fare cappotto, ottenere finalmente i pieni poteri, il plebiscito referendario, la paternità della Grande Riforma o comunque il titolo di salvatore della patria con cui presentarsi all’elezione diretta (possibilmente dopo essersi ridisegnato allo scopo le istituzioni e la legge elettorale). In poche parole: la via d’uscita gollista dalla crisi politico-istituzionale aperta negli anni novanta, che tuttavia gli italiani, nella loro infinita saggezza, non hanno concesso a nessuno. Nemmeno a Berlusconi.

Anzi, si potrebbe sostenere che sia stato proprio quel miraggio a segnare la brusca inversione di tante parabole, a cominciare da quella di Matteo Renzi nel 2016, con la scelta di impegnare tutto il suo capitale di consenso nella battaglia per l’Italicum e per il referendum istituzionale. Referendum al quale personalmente ho votato sì, e al quale rivoterei sì pure domani mattina, ma che certo avrebbe avuto un altro significato, e forse anche un altro esito, se Renzi e la solita compagnia di apprendisti stregoni del maggioritario avessero lasciato in pace la legge elettorale proporzionale così com’era uscita dalla sentenza della Corte costituzionale (magari con qualche limatura, come una ragionevole soglia di sbarramento). In ogni caso, i tanti aspiranti de Gaulle del centrodestra farebbero bene a riflettere su come, in passato, simili tentativi siano andati a finire (anche a loro). E farebbe bene a rifletterci Draghi.

Naturalmente non sono in grado di dire quanto le ipotesi para-presidenzialiste avanzate da Giorgetti siano una sua personale fantasia, uno spauracchio che lo stesso Giorgetti agita per lasciare tutto com’è o qualcosa di più largamente e autorevolmente condiviso. Ma la statistica dice che in Italia non c’è modo più sicuro di questo per azzoppare anche le leadership apparentemente più salde.

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