C’è chi crede che sarebbe meglio non avere figli, perché averli peggiora il problema del riscaldamento globale. La considerazione alla base di questa credenza è semplice: sono gli umani a causare le emissioni di gas serra in atmosfera, e di conseguenza aumentare il numero di umani, facendone nascere uno in più, non può che aggravare la situazione.
Il ragionamento, a primo impatto, sembra sia corretto che particolarmente radicale. Corretto perché ”fila” e radicale perché, anche se non lo si dice esplicitamente, l’ambizione sembrerebbe quella di ridurre – o addirittura estinguere – la propria specie volontariamente. Certo, l’antinatalismo (così si chiama quest’idea) potrà anche sembrare bizzarro, eppure è sostenuto da diversi nomi influenti. Si fa rientrare nella categoria lo scrittore Thomas Ligotti, il comico Ricky Gervais fino al filosofo Michel Onfray. Anche la politica statunitense Alexandria Ocasio-Cortez si è chiesta se il riscaldamento globale non sia un buon motivo per avere meno bambini.
Passando qualche ora online nelle varie comunità degli antinatalisti (a proposito, su Reddit la comunità di antinatalisti conta 137mila iscritti) si scopre che le fonti su cui si basa questa idea non sono solamente le riflessioni di alcuni filosofi o di politici più o meno influenti. Ci sono anche diversi studi scientifici che stimano l’impatto di un singolo nuovo nato sul pianeta. Ed è da questi studi che sono nati titoli come «Vuoi combattere il riscaldamento globale? Fai meno figli». Il problema di questi studi, però, è che non tengono conto di alcuni fattori determinanti. Come ha spiegato l’autrice Sigal Samuel su Vox, i paper che sostengono che avere meno bambini sia la migliore azione possibile per fermare il riscaldamento globale partono da un dato sbagliato: che i nostri figli e poi i loro figli inquineranno proprio come inquiniamo noi oggi. Mentre invece è altamente improbabile: già oggi le emissioni pro capite sono in discesa in quasi tutto il mondo e il dato è particolarmente evidente in Europa.
Gli studi citati dagli antinatalisti, in altre parole, immaginano che l’impatto di un essere umano sull’ambiente sia costante. Cosa che, però, è falsa: questo impatto è in diminuzione. Non solo: stando ai recenti accordi sul clima entro il 2050 l’Unione europea e gli Stati Uniti (la cina e l’India nel 2060 e nel 2070) raggiungeranno la cosiddetta neutralità climatica, cioè quel punto di equilibrio in cui le emissioni non supereranno quelle che l’ambiente può naturalmente assorbire. In questo modo, quindi, le emissioni di chi nascerà nel prossimo futuro, saranno sensibilmente inferiori. E addirittura non impattanti.
Un altro dato interessante citato sempre da Sigal Samuel è che se si correggono le stime citate dagli antinatalisti in base alla progressiva diminuzione dell’impatto pro capite sul pianeta allora avere meno figli passa da essere di gran lunga la miglior azione individuale per fermare il riscaldamento globale (qui il grafico), a essere un’azione paragonabile a non avere la macchina, o a essere vegetariani (qui il grafico).
Ma il dato più rilevante è che di azioni individuali utili a combattere il riscaldamento globale ne esistono di molto più utili: come donare alle organizzazioni no profit che lavorano sul piano legale e dell’attivismo. Donare a certe ong è decine di volte meglio che avere meno figli (grafico).
Ci sono poi altri errori nel ragionamento antinatalista. E si trovano più a monte. Il più evidente è che l’antinatalismo esiste solo in alcuni paesi, tutti occidentali, e in questi paesi la popolazione è già in diminuzione.
Il pensiero antinatalista (basato su uno specifico razionalismo e post-storicismo) c’è in Germania, in Italia, in Giappone, negli Stati Uniti e così via, ma la popolazione mondiale non sta aumentando per via degli italiani o dei tedeschi. La popolazione italiana è in costante diminuzione (entro fine secolo il nostro paese avrà 20 milioni di abitanti in meno), idem quella tedesca e quella giapponese. Anch’esse in diminuzione. I paesi la cui popolazione cresce di più al mondo sono Siria, Sudan, Burundi, Niger, Angola, Benin e Uganda. Potrà mai attecchire, in questi paesi, l’antinatalismo? Evidentemente no.
Le proiezioni mostrano che i primi tre paesi al mondo per popolazione, già nel 2050, saranno India, Cina e Nigeria. Nessun paese occidentale. Entro qualche decade tra i 15 paesi più popolati al mondo l’unico paese dell’ovest del mondo (e in cui quindi l’idea dell’antinatalismo può ricevere un qualche credito) saranno gli Stati Uniti. Insomma: il dibattito antinatalista, se lo si guarda nel suo complesso, non può ambire a diminuire la popolazione mondiale, perché coinvolge le popolazioni sbagliate.
L’unico obiettivo che l’antinatalismo può raggiungere sembra essere quello di diminuire il numero di occidentali. Cosa che, ripetiamolo, avviene già e non avrebbe alcun impatto rilevante sulla crescita demografica mondiale.
A questo punto una domanda è d’obbligo: da cosa dipende quanti figli facciamo? La risposta è che dipende essenzialmente dalla nostra ricchezza. I poveri fanno più figli, perché i figli sono la loro unica ricchezza e possibilità di essere accuditi in tarda età. La parola “proletario”, che non a caso viene dal latino “proles” significa proprio questo: che non ha ricchezze o mezzi di produzione propri. Chi invece le ricchezze le ha sa che facendo molti figli dovrà frazionare l’eredità, impoverendoli. Se ho una casa e un solo figlio quel figlio avrà una casa tutta per sé. Se ho una casa e sette figli saranno sette figli senza casa. Per questo, e solo per questo, è esclusivamente in Occidente che può diffondersi un verbo antinatalista: perché siamo abbienti e privilegiati. E però, sempre per questo, nel continente che cresce di più demograficamente, l’Africa, l’antinatalismo non ha nessuna possibilità di attecchire.
Appurato che i paesi più in crescita (e più inquinanti) non sono quelli occidentali, c’è un’ultima domanda da porsi: è moralmente accettabile sperare, noi occidentali, che nei paesi più poveri si facciano meno figli? Sapendo che, dai figli e dai sistemi familiari, i cittadini dei paesi in via di sviluppo dipendono per il proprio sostentamento?