Green moneyLa transizione verde è anche questione di soldi

Al di là di retorica a buon mercato e slogan facili da recitare per posizionarsi, il nodo da sciogliere per la salvaguardia del pianeta rimane quello economico. Ed è complicatissimo, anche perché far pagare chi inquina di più è una falsa soluzione

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Una delle caratteristiche del cambiamento climatico che lo rende un problema così difficile da risolvere è che, inevitabilmente, è legato all’economia. E quest’ultima, altrettanto inevitabilmente, risente di decisioni politiche e collettive non sempre – per usare un eufemismo – perfettamente razionali.

Il cambiamento climatico, in altre parole, è un problema così grosso che è sfuggente. Affrontarlo solo da un punto di vista, quello dello scioglimento dei ghiacci, o quello della diplomazia internazionale, non è sufficiente. Si afferra il toro per le corna, benissimo: peccato che sia un toro che di corna ne ha altre decine. 

Partiamo dalle ovvietà: l’economia è legata al riscaldamento climatico innanzitutto perché è la produzione industriale a causare l’enorme ammontare delle emissioni inquinanti nell’atmosfera. Queste emissioni fanno male anche a noi, ai nostri polmoni e alle nostre aspettative di vita, ma soprattutto fanno male al pianeta, agli ecosistemi, perché fanno aumentare le temperature globali troppo rapidamente perché i viventi si possano adattare.

L’economia e il riscaldamento globale sono legati a doppio filo anche perché durante i negoziati e i processi che portano alle decisioni politiche (le uniche, si dice, a poter trovare soluzioni collettive a un problema di così larga scala) alla fin fine – al netto cioè di tutta la retorica e gli slogan facilissimi da pronunciare per tentare di autoproclamarsi preoccupati e buoni – ci sono i soldi. 

Uno dei molti modi per illuminare il problema climatico, infatti, è il seguente: le emissioni sono prodotte soprattutto da alcuni Stati. Ma, evidentemente, provocano danni a tutta la comunità globale, anche se non in egual misura. Quindi perché non far pagare questi Stati per le loro emissioni? Sembra un ragionamento lineare, peccato che sia pieno, pienissimo di insidie.

Il primo problema di un sistema di compensazioni economiche è che, al momento, non sta funzionando. Per riferirsi al pagamento da parte dei paesi più inquinanti di risarcimenti a beneficio dei paesi che subiscono di più le conseguenze del riscaldamento globale viene spesso usata l’espressione inglese “loss and damage” (in italiano “perdite e danni”). Se n’è parlato molto anche durante la scorsa conferenza delle Nazioni Unite per il clima, la Cop26 tenuta lo scorso novembre a Glasgow, in Scozia, e presieduta dal Regno Unito. Nonostante questo, però, la resistenza degli stati che inquinano di più è stata sufficiente a far sì che queste compensazioni non vengano approvate, figuriamoci rese obbligatorie. In altre parole: i paesi che inquinano di più sono anche i più ricchi e potenti del mondo (anche a questo serve la produzione industriale) e quindi non votano un sistema di sanzioni che gli sconviene. 

Si potrebbe obiettare che la crescente sensibilità collettiva rispetto ai temi ambientali, come anche l’attivismo e i sempre maggiori impegni presi dagli stati, potrebbero presto portare ad approvarlo, un sistema di risarcimenti. Non è impossibile, ma anche quando un risarcimento è stato previsto, discusso, approvato e reso pubblico, poi lo si è disatteso. Prendiamo i 100 miliardi di dollari (circa 89 miliardi di euro) che i paesi ricchi avrebbero dovuto versare entro il 2020 ai paesi più poveri per aiutarli con la cosiddetta “finanza climatica”: non sono stati pagati, e la data per il raggiungimento dell’obiettivo è slittata al 2023. 

Di problema, il sistema “loss and damage” ne ha un altro: la difficoltà di trovare un accordo su chi ha causato alcuni specifici danni, e di conseguenza chi sarebbe tenuto ad assumersene la responsabilità. Purtroppo i danni provocati dalle emissioni agli ecosistemi e ai territori sono “indiretti”. Tradotto: non c’è una singola nube di inquinanti che arriva proprio da una specifica area industriale e che, vagando proprio per una certa area del mondo causa proprio un singolo evento atmosferico dannoso per qualcuno. Non funziona così. Semmai l’inquinamento cinese, quello statunitense, quello qatariota, quello tedesco e quello indiano e così via collaborano, uniscono le forze, e fanno danni, chissà, in Antartide, o magari nel delta del Niger, o ancora causando delle alluvioni, nuove e peggiori di quelle passate, in Sassonia o in Piemonte. 

Questa mancanza di un rapporto causa-effetto diretto e inconfutabile si traduce in un lasciapassare, un argomento perfetto per arrivare a una deresponsabilizzazione collettiva. Nessuno stato, per esempio, si assume la responsabilità dell’inquinamento aereo, o di quello causato dal trasporto navale. Il motivo? Semplice: le navi e gli aerei passano sul territorio di quasi tutti gli stati. Ci sono navi, poniamo il caso, costruite e vendute da compagnie tedesche, che battono bandiera giapponese, ma trasportano merci indiane, che arriveranno a un porto olandese, per poi rifornire di un bene, per esempio, milioni di spagnoli, di svizzeri e di portoghesi. Chi se ne fa carico? Semplice, nessuno.

Secondo Le-Anne Roper – negoziatrice capo per le perdite e i danni per l’Alliance of Small Island States – servirebbe un nuovo obiettivo finanziario. «È l’unico modo per dare alla nostra gente una migliore possibilità di sopravvivere, data la portata crescente della crisi e la necessità di un’azione significativa per affrontare le perdite e i danni». E probabilmente ha ragione, ma il gruppo di piccoli stati insulari che rappresenta, che sui tavoli della diplomazia internazionale spinge con più forza per stabilire un sistema di responsabilità dei grandi emettitori, pesa poco. Senza l’appoggio di blocchi politici più influenti, come l’Unione Europea o il Regno Unito, rischia di non raggiungere nessun obiettivo.

Il gruppo dei piccoli stati insulari (sono 38) ha però un alleato, il continente africano. L’Africa Group – altra alleanza diplomatica che ha partecipato attivamente alla Cop26 – ha tutto l’interesse che gli stati più ricchi e industrializzati paghino ai paesi più poveri delle compensazioni per i danni causati. D’altronde il ragionamento è semplice: i paesi più poveri producono meno beni, e ne consumano anche molti meno, conseguentemente non possono essere considerati responsabili del riscaldamento globale. Anche un altro blocco rema nella stessa direzione: l’Ldc (Least Developed Countries), che non a caso ha la maggior parte dei suoi 46 membri proprio in Africa. Non va sottostimata l’agency, cioè la capacità di agire autonomamente, di questi schieramenti. Ma, realisticamente, c’è da chiedersi se davvero sul piano diplomatico possano avere la meglio su Cina, Stati Uniti, Russia e India, cioè coloro che oggi inquinano di più, ottenendo un maxi risarcimento che corrisponda ai danni subiti. La risposta è no.

Se i più ricchi resistono nel compensare i più poveri non è soltanto per l’indecidibilità delle responsabilità, o per il criticabile, ma fisiologico, egoismo con cui ragionano stati e blocchi politici. C’è anche la preoccupazione, legittima, sul come verranno spesi i finanziamenti erogati per le compensazioni. Gli stati che ne hanno più bisogno infatti – ed è innegabile che sia un bisogno reale e urgente – soffrono di instabilità politica, di problemi come corruzione e conflitti armati in corso. Capita che territori molto poveri, come il sud del Sudan o la Repubblica Centrafricana siano in parte controllati da attori non statali. Possono essere milizie i cui capi e dirigenti mutano in continuazione, o gruppi considerati dalla comunità internazionale alla stregua di terroristi. Non è difficile immaginare che ogni trasferimento di denaro e mezzi, in queste zone, sia di per sé rischioso. 

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