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Pubblichiamo un dibattito tra Liz Alderman, capocorrispondente economica dall’Europa del New York Times, Loukas Tsoukalis, presidente del board di Eliamep e Azeem Azhar, fondatore di Exponential View.
Liz Alderman
Una delle cose che abbiamo ascoltato di frequente in seguito al diffondersi della pandemia sono state le discussioni sul modo in cui i Paesi sarebbero riusciti a passare non solo attraverso la crisi sanitaria ma anche attraverso l’enorme crisi economica. Quindi questo mantra del “ricostruire meglio” è diventato, per certi versi, un nuovo slogan politico per chi promuove un’agenda orientata a una maggiore difesa dei servizi pubblici, a contrastare le disuguaglianze, a creare un’economia più solida affrontando, nello stesso tempo, il cambiamento climatico. Loukis lei sa bene che la Grecia, come molti altri Paesi in Europa, non aveva ancora fatto in tempo a riprendersi da una crisi economica quando è stata travolta dal Covid. Ma ora in questo Paese stiamo vedendo un maggiore sforzo per ricostruire l’economia in modo migliore, per esempio attraverso la digitalizzazione dei servizi pubblici, gli investimenti nella green economy e un enorme recovery plan dell’Unione europea. Ma è davvero possibile rendere la Grecia, od ogni altro Paese, così resistente agli urti da poter respingere future calamità?
Loukas Tsoukalis
Sicuramente no. Voglio dire, ricordiamoci prima di tutto che la Grecia è passata attraverso un decennio infernale, una crisi economica che l’ha condotta a perdere il 25 per cento del suo Pil (un dato senza precedenti, dopo la Seconda guerra mondiale, in un Paese sviluppato) e che poi è stata colpita dalla pandemia. La Grecia si stava riprendendo e ora è impegnata non soltanto in un processo di ripresa ma anche nell’accelerazione digitale e nella trasformazione green della propria economia, con l’aiuto del recovery plan dell’Unione europea. E questo è un elemento che determina un’enorme differenza nel modo in cui l’Europa, e l’Unione europea in particolare, sta tentando di affrontare le due crisi – o, anzi, tra il mondo in cui sta cercando di affrontare questa crisi dopo non aver affrontato la precedente.
Con la crisi dell’euro, l’Europa ci ha messo molto tempo a reagire e in sostanza ha fatto molto poco, insistendo sulle politiche di austerità che hanno aggravato il problema praticamente in tutto il continente. Ora, con la pandemia, i leader politici europei, fortunatamente, si sono resi conto che, se si fossero comportati nella stessa maniera in cui si erano comportati nella crisi precedente, questa volta il rischio che l’Unione europea si rompesse sarebbe stato molto alto. Quindi questo è il motivo per cui ci siamo trovati con un recovery plan estremamente ambizioso, che prevede la prima mutualizzazione del debito europeo; non è esattamente il “momento hamiltoniano” dell’Europa, ma è un primo passo importante.
Liz Alderman
Azeem, ovviamente uno degli elementi che aiutano maggiormente a sostenere ogni tipo di ripresa dalla pandemia ha a che fare con la qualità dell’occupazione e, in sostanza, con il modo in cui le aziende operano nella società. Da quando è iniziata la pandemia, abbiamo assistito all’apertura di spaccature nella società e abbiamo visto le disuguaglianze diventare ancora più grandi. Lei ha scritto un editoriale sulla rivista Wired intitolata “The Exponential Age Will Transform Economics Forever” (“L’era esponenziale cambierà per sempre l’economia”) in cui ha parlato di come la nostra incapacità di comprendere il fatto che stiamo vivendo in un momento di cambiamento acceleratissimo potrebbe fare a pezzi l’economia e la società. Potrebbe spiegarci che cosa intende dire e che conseguenze ci possono essere in un momento in cui tutti i Paesi stanno cercando una strada per liberare le loro economie dagli effetti della pandemia.
Azeem Azhar
Già subito prima della pandemia ci trovavamo in una posizione scomoda, nel senso che, anche se il tasso di occupazione era molto alto, in gran parte delle economie ricche del mondo c’erano sicuramente delle domande rilevanti da porsi intorno alla qualità di quella occupazione. Quando iniziamo ad applicare queste tecnologie esponenziali e costruiamo piattaforme come Uber e molte altre, vediamo una biforcazione che non ha tanto a che fare con la quantità dei lavoratori, ma con la qualità del loro lavoro. E se guardiamo a quello che è successo durante la pandemia, sono state proprio queste piattaforme digitali le aziende che hanno vinto. La forza lavoro di Amazon è cresciuta di 800mila persone, nel mondo, da quando è iniziata la pandemia. E, a livello generale, questo è un grande dato, perché significa 800mila famiglie in più in cui c’è un impiego.
Ma c’è una cosa che abbiamo notato, e di cui ho scritto nel mio libro “The Exponential Age: How Accelerating Technology is Transforming Business, Politics and Society”: negli ultimi quaranta o cinquant’anni, e cioè da quando abbiamo introdotto queste tecnologie avanzate, l’equilibro di potere tra l’azienda e il lavoratore si è enormemente spostato a favore dell’azienda. E vediamo questa cosa anche da altri dati come la misurazione di quanto incida in percentuale il lavoro sul reddito nazionale, una quota che è andata declinando in quasi tutti i Paesi più ricchi.
E quindi ci troviamo ora nel momento in cui dobbiamo chiederci se le tradizionali ortodossie del nostro sistema economico abbiano ancora senso. Ci servono ancora? Perché forse ci servono per ottenere una cifra di primo livello relativa al Pil, ma non ci servono necessariamente per avere più equità.
©️2021 The New York Times Company
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