Difesa personaleTra gli effetti del Covid c’è l’aver accresciuto i poteri della pubblica amministrazione

Con il nuovo decreto sull’obbligo vaccinale la sanzione verrà irrogata dall’Agenzia delle Entrate, mai prima d’ora chiamata a intervenire in ambito sanitario. Una scelta fatta per efficienza ma che aumenta i rischi per l’integrità dei diritti del cittadino. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta

di Milosz Klinowski, da Unsplash

Sarà l’Agenzia delle Entrate a irrogare le sanzioni in caso di violazione dell’obbligo vaccinale anti-Covid introdotto per gli over 50 dal decreto-legge 1/2022. Questa notizia è rimasta in secondo piano, eclissata dal dibattito sulla legittimità e l’opportunità dell’obbligo vaccinale; eppure, essa presenta problemi che meriterebbero maggiore attenzione e, auspicabilmente, maggiore prudenza da parte del legislatore.

Anzitutto, si tratta di un ampliamento delle tipiche competenze dell’Agenzia delle Entrate, la quale mai prima d’ora era stata incaricata di irrogare sanzioni per la violazione di un obbligo sanitario. Di questioni di quel tipo si sono sempre occupate le ASL territorialmente competenti.

Possiamo presumere che il governo si sia mosso in questa direzione sulla base di ragioni per così dire “efficientistiche”, dal momento in cui l’Agenzia è l’ente in possesso degli strumenti necessari per determinare, praticamente in tempo reale, chi si è vaccinato e chi no, e quindi emettere una sanzione. Tuttavia, ogni volta che si stabilisce un obbligo assistito da una sanzione, non bisogna guardare solo all’efficienza, ma anche alla garanzia del diritto di difesa del destinatario dell’obbligo. Essa trova nella distribuzione – e non nell’accentramento – delle competenze tra soggetti diversi una delle sue principali espressioni.

Ancor più problematico è il rischio di vulnus del diritto di privacy del cittadino. La normativa europea in materia (il cosiddetto GDPR) prevede che, perché gli enti pubblici possano trattare dati sensibili quali sono quelli sanitari, sia necessario precisare il tipo di dati che sarà oggetto di trattamento, le operazioni eseguibili, le misure specifiche e appropriate per tutelare i diritti fondamentali della persona. Il decreto 1/2022 non si è però adeguato a queste disposizioni, omettendo di fornire le necessarie precisazioni in punto di trattamento dei dati necessari a irrogare le sanzioni.

Tutto regolare? A quanto pare, sì. A ottobre 2021, infatti, il cosiddetto decreto Capienze ha riformato il Codice della Privacy (con cui la normativa europea è stata recepita a livello nazionale), alleggerendo i requisiti procedurali necessari per la trattazione, comunicazione e diffusione dei dati personali: non più una legge dettagliata approvata dal Parlamento, ma anche solo un atto amministrativo generale adottato dall’amministrazione che tratterà i dati.

In altre parole, sarà la stessa amministrazione a decidere quali regole rispettare: anche in questo caso, la considerazione di efficienza si scontra con la garanzia del diritto individuale che viene dalla separazione o frammentazione dei poteri.

Nel corso di questi anni, la privacy, come peraltro molte delle libertà costituzionalmente garantite, è stata più volte messa sotto accusa, quasi che la sua tutela fosse d’ostacolo alla prevenzione del contagio.

È senza dubbio vero che i diritti individuali hanno una tendenza a mettersi di traverso sulla strada della capacità d’azione del potere pubblico, ma ciò, lungi da costituire un vizio, è un elemento essenziale delle società aperta e di quella libertà dei moderni che, almeno noi, tanto abbiamo a cuore.

Il Parlamento, in sede di conversione del decreto-legge 1/2022, farebbe bene a riservarsi un momento di ulteriore riflessione, pena il rischio di annoverare, tra gli effetti del long-Covid, anche l’aver aumentato a dismisura il potere informativo della pubblica amministrazione.

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