C’è un malinteso – lo definisco sofficemente in questo modo – a proposito della presunta interferenza giudiziaria nei pasticci statutari e deliberativi del Movimento 5 Stelle affidato alle cure dell’avvocato professor Giuseppe Conte.
Dal complesso garantista – lo definisco vagamente in questo modo – viene la denuncia secondo cui quel procedimento civile, instaurato da pregressi affiliati a quel movimento, sarebbe appunto lo strumento di una indebita intromissione della magistratura nella politica (categoria sociologica, o per meglio dire da talk, che ormai sta a partiti come Chigi sta a governo).
E il malinteso non è per il fatto che in realtà non si tratta di intromissione, ma per il fatto che essa non è in nessun modo indebita. Salvo credere che la legalità statutaria e deliberativa di un movimento politico sia presidiata dallo Spirito Santo, o dal canone dell’Onestà amministrato senza appello dal legale rappresentante pro tempore, chi partecipi alla vita di quella realtà associativa e ritenga violata quella legalità dove va a lamentarsene e a chiedere che sia ripristinato il diritto: a Telecinquestelle aka la7? E a chi rimette la decisione: a Marco Travaglio?
Gioca sicuramente, a determinare questo fraintendimento, il caso di diverse iniziative giudiziarie – queste sì indebitamente interferenti – con cui la magistratura pretende di monitorare, intralciandolo, il corso politico delle associazioni partitiche, frugando nelle tasche e nella corrispondenza di chi le rappresenta: una pratica inaugurata dal manipolo meneghino che intimava a chi avesse scheletri negli armadi di non candidarsi, e continuata bellamente dagli epigoni della magistratura televisiva che davano istruzioni sui criteri di composizione delle liste elettorali.
Ma tutto questo non c’entra proprio nulla con il ricorso di un privato cittadino che – fondatamente o no, questo è un altro discorso – assuma che nel proprio partito si siano registrate violazioni meritevoli di sanzione.
Ma non basta. Perché a dar corpo a quel fraintendimento c’è poi il pregiudizio – frutto di una cultura da clan di cui probabilmente è inconsapevole proprio chi la esprime – secondo cui portare qualcuno in tribunale equivale a una specie di sgarbo mafioso, e che meglio, più leale, sarebbe la rissa in sezione o il match nella bolgia dei talk sopraddetti, gli equivalenti del duello rusticano in luogo dell’aula di giustizia: dove i gentiluomini non vanno.
Magari non sempre e magari, come ripeto, inconsapevolmente, ma c’è quello, a muovere la presunta obiezione garantista e anti-giustizialista cui stiamo assistendo: c’è l’idea che solo gli spioni, solo gli infami chiamano la gente per bene in cibbunale.
Si tratta invece della sede in cui risolvere civilmente una controversia facendo appello a un diritto che – a torto o a ragione – si ritiene violato. Non si tratta di giudici che fanno politica. Si tratta di cittadini che chiedono – a costo di apparire noioso lo ripeto ancora: che chiedono a torto o a ragione – che quell’associazione politica rispetti la propria legalità, come il Tizio del piano di sotto chiede all’amministratore del condominio di far rispettare il regolamento o come un creditore reclama quel che gli è dovuto.