Fame? No…voglia di qualcosa di buono!
Chi ha vissuto i primi anni Novanta difficilmente potrà non ricordare la celebre pubblicità in cui una nobildonna vestita di giallo, presa da «un certo languorino» (non proprio “fame”), chiede all’autista della sua Rolls Royce di portarle qualcosa che possa appagare la sua «voglia di qualcosa di buono». La funzione dei dolci nella vita reale non è diversa, non solo perché rappresentano il comfort food per eccellenza, ma anche perché in genere vengono intesi come un peccato di gola che non ha nulla a che fare con la fame vera e propria.
La chimera dello “stomaco di riserva”
Per spiegare il motivo per cui, indipendentemente dal numero di portate consumate in precedenza, si trova sempre spazio per il dessert a fine pasto, si è discusso più o meno seriamente per decenni in merito all’esistenza di un fantomatico “stomaco di riserva” capace di liberarsi improvvisamente come per magia all’arrivo del menu dei dolci. In realtà, più che un vero e proprio “organo supplementare”, alla base di questo fenomeno ci sarebbero alcuni meccanismi messi in atto dal cervello, che per diverse ragioni scientificamente dimostrate, sembra coalizzarsi con palato e stomaco nell’ostacolare qualsiasi tentativo di resistere alla concessione golosa.
Il bisogno di cambiare sapore
Secondo diversi studi recenti, tra cui quello condotto dalla dottoressa Barbara Rolls, docente e ricercatrice di Scienze della Nutrizione presso la Pennsylvania State University (USA) e quello di Russell Keast, professore di Scienze Sensoriali e dell’Alimentazione e direttore del Center for Advanced Sensory Science della Deakin University (Australia), la voglia di zuccheri è innescata proprio dalla sazietà raggiunta grazie al consumo di cibi salati, che porta a desiderare un sapore completamente diverso da quelli che si è appena finito di gustare.
Il fenomeno della sazietà sensoriale specifica
Il meccanismo che spinge a trovare spazio per il dolce anche quando ci si sente scoppiare è la cosiddetta “sazietà sensoriale specifica”, innescata dal consumo eccessivo di un singolo alimento o di cibi dal sapore simile. Il fenomeno è stato descritto per la prima volta nel 1956 dal neurofisiologo francese Jacques Le Magnen, dopo un test condotto su un gruppo di volontari ai quali fu chiesto di assaggiare 8 alimenti e di mangiare in grande quantità solo quello considerato più appetibile. Ripetendo lo stesso assaggio poco tempo dopo questo pasto abbondante e monotono, il gradimento verso il cibo scelto in precedenza risultava molto inferiore rispetto agli altri 7 alimenti, con caratteristiche di aroma e gusto differenti.
Un meccanismo vantaggioso per variare la dieta
Di per sé la “sazietà sensoriale specifica” è un fenomeno vantaggioso: rappresenta un freno naturale dell’appetito, che il corpo umano ha sviluppato nel corso dell’evoluzione per evitare di mangiare continuamente gli stessi cibi e adottare istintivamente una dieta più varia e completa dal punto di vista nutrizionale. Ma è anche ciò che spinge a mangiare oltre il limite della sazietà quando ci si trova a un buffet o se al ristorante vengono servite in sequenza portate con caratteristiche organolettiche molto diverse tra loro.
Palato e cervello vogliono 5 sapori
Le papille gustative sono in grado di distinguere 5 tipologie di sapore: il dolce, il salato, l’amaro, l’aspro e l’umami (dal giapponese “saporito”), che corrisponde al gusto intenso degli alimenti ricchi di proteine come carne e formaggio. A sua volta il cervello riconosce questa differenza e modula di conseguenza i segnali di appetito e sazietà, sostituendo il bisogno di appagare lo stomaco con il desiderio di compiacere il palato e non fare annoiare i sensi.
Un inevitabile attentato alla linea?
Per soddisfare a pieno il palato e il cervello bisognerebbe sperimentare tutti i sapori a ogni pasto. Ma ciò non significa necessariamente mettere in pericolo la linea assaggiando molte portate né dover cedere per forza al dessert per creare un contrasto rispetto alla componente salata del menù. Anche se si è a dieta o se si opta per il piatto unico, è possibile raggiungere lo scopo utilizzando ingredienti diversi e ben distinguibili. In particolare, per fare a meno del dolce, è utile ridurre il sale e introdurre nelle pietanze ingredienti zuccherini in piccole dosi (come zucca, mais, miele o frutta secca), in modo da non sbilanciare l’apporto di nutrienti e non rischiare di eccedere con le calorie.
Attenzione alle altre dolci trappole
Oltre alla ricerca della varietà nel gusto, ci sono altre ragioni che motivano la voglia di dolce dopo pranzo e/o dopo cena. Nel 2018, due studiose britanniche, la dottoressa Jen Nash, psicologa clinica specializzata in comportamento alimentare, e la nutrizionista Fiona Hunter, ne hanno illustrate almeno 3 dalle pagine del quotidiano Daily Mail.
1. Ragioni ataviche
Gli uomini primitivi avevano la necessità di accumulare riserve di energia facendo scorta di cibi calorici, che fossero però chiaramente distinguibili da quelli velenosi, associati ai sapori aspri o amari. Questo meccanismo è ancora attivo nella memoria istintiva dell’uomo contemporaneo, e continua a rendere attraenti i cibi dolci, sebbene la vita sedentaria e le moderne tecniche utilizzate per garantire la sicurezza degli alimenti messi in tavola lo rendano di fatto anacronistico e non più utile alla sopravvivenza.
2. Abitudine
Per molte persone il dolce a fine pasto rappresenta un rito, una consuetudine familiare rassicurante e un modo per prolungare il piacere dello stare insieme a tavola. Per questo, nonostante la consapevolezza di quanto questa abitudine possa rivelarsi dannosa, rinunciarvi può risultare difficile. Una buona strategia per riuscirci è quella di sostituirla con un’altra più salutare, come bere una bevanda calda (tè, caffè o tisana) o lavarsi subito i denti in modo da ingannare il cervello con un nuovo sapore fresco e al tempo stesso “convincerlo” che il pasto è davvero concluso.
3. Bisogno di compensazione emotiva
Lo zucchero agisce sui centri cerebrali legati al meccanismo del piacere, stimolando il rilascio di endorfine (come serotonina e dopamina) che generano un immediato (seppur transitorio) senso di soddisfazione. Per questo la voglia di dolce ha spesso un’origine emotiva, che trasforma il dessert in un comfort food, una sorta di ricompensa o di compensazione a un inappagato bisogno di affetto. Tuttavia, il benessere prodotto dei dolci dura poco: quando il livello di zuccheri nel sangue si riduce, anche l’energia psicofisica diminuisce, l’umore cala e si avverte il bisogno di mangiare di nuovo per ripetere quell’esperienza piacevole. Un meccanismo che può trasformarsi in una vera dipendenza (sugar craving), con effetti deleteri sulla linea e sulla salute psicofisica.
Ricordare che esistono alternative light
Per appagare la “voglia di dolce” non è per forza necessario un dessert ipercalorico: anche un biscotto senza zucchero, della frutta disidratata (come un dattero), un bicchierino di sorbetto o un quadretto di cioccolato fondente possono bastare per sentirsi soddisfatti senza incidere troppo sul carico glicemico del pasto e sul bilancio calorico giornaliero. La frutta fresca invece non è sempre la scelta più indicata a fine pasto, perché provoca fermentazione e rende difficile la digestione inibendo l’azione dei succhi gastrici. Fanno eccezione alcune varietà come ananas e papaya, che secondo diversi studi avrebbero proprietà digestive e l’effetto benefico di ridurre la velocità di assorbimento di zuccheri e grassi grazie alla presenza di fibre.