Partita doppiaI referendum tattici di Salvini e i piani di conquista del centrodestra

Sono tante le carte nel mazzo del leader della Lega da giocare contro l’alleata ma avversaria Giorgia Meloni. La prima mossa è puntare sul risultato delle consultazioni popolari. La seconda è una legge proporzionale, che porterebbe all’isolamento di Fratelli d’Italia. Di solito però non gli vanno bene

di Kind and Curious, da Unsplash

Referendum, referendum, referendum. Quelli sulla giustizia che potrebbero tenersi in primavera, forse ad aprile, se avranno il via libera dalla Corte Costituzionale. È l’ultimo banco di prova per dimostrare che il centrodestra esiste ancora e non si è «sciolto come neve al sole» (questa l’amara constatazione dello stesso Matteo Salvini di fronte all’ordine sparso mostrato nella vicenda quirinalizia).

Se dovesse fallire pure questo tentativo, per la Lega si aprirebbero i giochi per una legge elettorale diversa dal Rosatellum che assegna un terzo dei seggi sulla base di collegi uninominali. Il leader leghista eviterebbe di ingaggiare una guerra logorante con Giorgia Meloni, la quale continua a remargli contro e vola nei sondaggi. Soprattutto adesso che il taglio del numero dei parlamentari ha trasformato in oro ogni candidatura blindata. Non è tuttavia sul proporzionale puro che l’ex ministro dell’Interno aprirebbe. Vedremo dopo quale modello preferisce. Il punto di partenza rimane l’appuntamento referendario con il quale Salvini pensa di risollevare le sue sorti elettorali.

Il nuovo ottovolante in cui si è lanciato, insieme ai Radicali, sono i sei quesiti referendari sulla giustizia che avrebbero un effetto dirompente se passassero alla prova delle urne e raggiungessero il quorum. Dirompente non solo per gli equilibri della magistratura, delle loro carriere, che verrebbero separate, e del rapporto tra difesa e accusa. È l’effetto politico multiplo che fa venire l’acquolina in bocca al leader leghista. Che poi riesca a infilare tutti gli anelli nel chiodo è un’altra storia.

Le ultime strategie messe in piedi dall’ex ministro dell’Interno (vedi la vicenda del Quirinale, appunto) non hanno certo brillato. Ma adesso riprova a prendersi il centro della scena politica con i referendum, la nuova linfa politica, il nuovo cavallo di battaglia che sulla carta dovrebbe vedere tutti i partiti del centrodestra uniti come una falange macedone. E invece così non è.

Silvio Berlusconi, che del ridimensionamento dei poteri giudiziari ha fatto storicamente la sua cifra politica e di interesse personale, ha fatto firmare Forza Italia. Bisognerà vedere quanta voglia avrà di pompare una battaglia sotto le insegne del Carroccio, mentre l’ex premier è alle prese con una parte del suo partito (quello che sta al governo) che non vuole morire sovranista e ha portato Renato Brunetta a definire «bastardo» l’attuale bipolarismo.

Giorgia Meloni di referendum ne ha firmati quattro su sei, ma adesso chiede che sia il Parlamento a legiferare in merito. Se l’attuale maggioranza dovesse mettersi a discutere su una questione del genere, il risultato sarebbe l’apocalisse. Ma la vera competitor di Salvini sa benissimo che questo non avverrà. Il suo vero obiettivo è non favorire il trionfo del leader leghista nelle urne referendarie.

«Certo – spiegano nell’innner circle salviniano – se raggiungiamo il quorum, se riusciamo a far passare i referendum con il 50% dei voti più uno, noi voliamo nei consensi e a quel punto bye bye Giorgia. Per noi potrebbe rimanere l’attuale sistema elettorale: le carte per l’assegnazione dei collegi uninominali le daremmo noi». Ecco come si intrecciano i piani, ma gli scenari immaginati da Salvini sono destinati a rimanere lettera morta? C’è una spinta dell’opinione pubblica a favore di un colpo di maglio su una parte della magistratura, sugli eccessi, le storture, il correntismo dopo la caduta d’immagine oggettivamente insopportabile del caso Palamara. Potrà Giorgia sottrarsi a questa occasione solo perché a piantare e sventolare la bandiera “garantista” è Matteo?

Ecco, i leghisti sono convinti di averla messa al muro. Lei sostiene che non è per niente vero e che alla fine rimanere coerentemente all’opposizione porterà Fratelli d’Italia a essere il primo partito quantomeno del centrodestra. «Se poi Matteo dovesse pensare di vincere da solo con il proporzionale o continuando l’ammucchiata con la sinistra e i Cinquestelle – dicono dalle parti della Meloni – si accomodi, ma si ricordi che alla prima occasione il primo ad essere sacrificato sarà lui. Anche da zio Silvio».

Già, Berlusconi, tentato, molto tentato di giocare, come sempre, su più tavoli. Sembra che a Matteo Renzi abbia promesso che, quando arriverà il momento, Forza Italia sosterrà una legge proporzionale per favorire dopo le elezioni del 2023 nel prossimo Parlamento le condizioni per la cosiddetta maggioranza Ursula (quella a Bruxelles sostiene la presidente della Commissione europea) e la permanenza a Palazzo Chigi di Mario Draghi. Nel quartier generale di Berlusconi negano una tale promessa. La negano soprattutto coloro che sono considerati filo-leghisti, quelli che sono stati eletti e vorrebbero essere rieletti anche grazie ai voti del Carroccio.

Insomma, i giochi sono veramente tutti aperti, anche nel campo largo che cerca di costruire il leader del Pd Enrico Letta. Ma in questo campo non ci sono due forze politiche come Lega e FdI che navigano attorno al 20%, che hanno una vecchia regola inventa da Berlusconi quando lui era il più grosso di tutti: il premier lo fa il leader del partito che prende più voti. Per questo è difficile riconsolidare la neve del centrodestra che si è sciolta. Matteo e Giorgia non si fidano più l’uno dell’altro. «Superiamo le incomprensioni – ripete il leghista – i nostri elettori non voglio battibecchi, litigi, divisione: uniti si vince». «Altro che incomprensioni – avrebbe commentato Meloni con i suoi collaboratori – qui siamo alla presa in giro: dicono di voler fare una cosa, la scrivono pure nei comunicati alla fine dei vertici, ma poi ne fanno un’altra con i loro alleati di governo. Non siamo né fessi nè ingenui». Meloni non si sente sfidata alla prova dei referendum. Semmai aspetta Salvini al varco di una serie di prove, quella delle legge elettorale è quella del nove.

Sì, perché adesso dicono tutti che non è il caso di parlarne. Salvini considera ridicolo farlo di fronte al devastante effetto sulle imprese del caro bollette, ai venti di guerra che soffiano da Est. Poi bisogna concentrarsi sui referendum. La legge elettorale non è una priorità. Ma sotto sotto le regole del gioco sono sempre in cima ai pensieri dei capi di partito. È un fiume carsico che si inabissa, scompare per riapparire improvvisamente mano a mano che si avvicina la scadenza elettorale delle Politiche 2023.

Ma c’è un paletto che la Lega ha già posto in commissione Affari costituzionali della Camera quando alcuni mesi fa il presidente Giuseppe Brescia dei Cinquestelle, sostenuto dal Pd, ha presentato un testo base per un sistema proporzionale con sbarramento al 5%. La Lega si è messa di traverso. Per il capogruppo leghista in questa commissione, Igor Iezzi, non c’è alcuna urgenza. «Il Rosatellum è pronto per essere usato, è adeguato anche dopo il taglio dei parlamentari. Sono stati allargati i collegi uninominali e ridotte le circoscrizioni. Questo basta a livello tecnico. Diverso è il discorso a livello politico. Per noi le priorità sono altre. Litigare oggi sul proporzionale sarebbe da marziani, gli italiani ci inseguirebbe con i forconi. Il problema è di Conte, Letta e Renzi: vogliono una legge che serva ai loro giochi e per neutralizzare il centrodestra».

Detto questo, però, Iezzi non esclude che si possa parlare più in là di proporzionale, ma non quello puro con lo sbarramento al 5%. La Lega è disposta ad aprire il confronto sul modello proporzionale delle comunali o delle regionali che prevede un premio di maggioranza al partito o ai partiti che, coalizzati, raggiungono una certa percentuale di voti (il 40 o il 45%). In questo modo le forze politiche potrebbero correre da sole con le proprie liste. Non sarebbero costrette a concordare i candidati nei collegi uninominali, ma rimarrebbe il perimetro della coalizione per conquistare il premio di maggioranza grazie al quale atterrare alle Camere con il 55% dei parlamentari. Una percentuale sufficiente per avere una maggioranza di governo.

Tutto questo viene detto mentre il fiume carsico del dibattito sulla legge elettorale si è inabissato, ma lì sotto ne continuano a parlare. Eccome. Quando riemergerà, perché prima o poi ciò avverrà, si conterranno i morti e feriti dentro le coalizioni già sbrindellate. Con la Lega che vuole trasformare il passaggio dei referendum nelle forche caudine del centrodestra. E allora tutto potrebbe ricominciare da zero. Anche Salvini potrà dire ok al proporzionale puro e alla Meloni: è meglio che ognuno vada per la propria strada. Con la differenza, è il ragionamento dell’ex ministro dell’Interno, che Giorgia verrebbe isolata, subendo una conventio ad excludendum. «Come il vecchio MSI», dicono sarcastici i leghisti, senza citare l’isolamento di Marine Le Pen in Francia e il cordone sanitario del gruppo parlamentare europeo in cui sono chiusi insieme all’amica francese.

Il Carroccio pensa invece si avere sempre tante carte da giocare in un futuro Parlamento senza vincitori. Come ha già dimostrato in questa legislatura, prima alleandosi con i Cinquestelle e poi entrando nell’unita nazionale di Mario Draghi con il Pd e la sinistra di Roberto Speranza.