Nella comprensibile ridotta attenzione da parte dei media e dell’opinione pubblica, è in corso una straordinaria pressione politica da parte di enti locali, partiti, sindacati e perfino magistratura organizzata, per depotenziare il disegno di legge concorrenza fermo al Senato. La proposta Draghi, all’ormai noto articolo 6, prevede una sostanziale ed effettiva apertura del mercato, quindi alla concorrenza, quindi ai privati, dei servizi pubblici locali.
Oltre il 90% dei servizi locali oggi attivi è stato affidato senza gara. L’affidamento diretto a società totalmente pubbliche (in house) è legittimo, ma il mancato ricorso al mercato dovrebbe essere, per le normative UE e nazionali, ridotto e adeguatamente motivato.
Il ddl concorrenza prevede meccanismi tali da rafforzare il ricorso alle gare rendendo residuale l’affidamento diretto e determinando, finalmente, una reale separazione tra le funzioni regolatorie e quelle di gestione diretta dei servizi, tra controllore e controllato.
Il provvedimento si pone peraltro obiettivi corrispondenti a quelli delle normative che si sono susseguite negli ultimi anni, tutte atte a tutelare la concorrenza nel settore, ma che sono risultate ineffettive, a partire dal testo unico delle partecipate del 2016. Queste norme non hanno inciso sufficientemente sulla riduzione delle società partecipate, sono infatti solo leggermente diminuite ma a fronte di un numero di addetti cresciuto; non hanno inciso sulla loro gestione: 1200 società non si trovano nelle condizioni, previste dalla legge, che ne legittimano il mantenimento in mano agli enti locali. Vi è poi, tuttora, una clamorosa dipendenza finanziaria di questi organismi rispetto alle istituzioni locali che li sussidiano anche oltre le necessità.
Ma ecco dunque la logica, reazionaria, mobilitazione, partita dai sindacati, alle prime indiscrezioni sul testo, e proseguita con la parola d’ordine di stralciare l’articolo 6, presente in mozioni comunali, approvate qua e là, a difesa del controllo diretto dei servizi locali, delle proprie società che tanto peso hanno regalato alle classi dirigenti locali, spesso tradottosi in affari, assunzioni illegittime, perdite finanziarie, favori, inefficienze, corruzione, costi ingiustificati, rilievi della Corte dei Conti e raccolta di consenso.
Tra gli ordini del giorno approvati dai consigli comunali anche quello milanese, a prima firma Carlo Monguzzi, che ha visto una pubblica contrarietà solo di Azione e +Europa. Nel testo si fa addirittura riferimento a «limiti evidenziati», nel corso della pandemia, di una fantomatica «società unicamente regolata dal mercato».
Perfino Magistratura Democratica ha pubblicato nel proprio sito un pezzo del già presidente di sezione del Tribunale di Milano Marco Manunta che si apre con un roboante «il ddl sulla concorrenza finirebbe per piegare alla logica del profitto servizi essenziali pregiudicando diritti primari delle persone e delle comunità locali», ricordandoci così la degenerata ideologizzazione di cui è ancora preda parte della nostra magistratura.
È chiaro che a fronte di queste pressioni e di questo strabismo ideologico, che vede ancora nel libero mercato una minaccia e non un’opportunità, il cammino del ddl è fortemente a rischio depotenziamento, nel suo prossimo passaggio parlamentare, e che il carattere riformatore dell’azione di Draghi rischi di subire un duro colpo.
La questione liberale resta, purtroppo, attuale nel Paese, nonostante il maquillage al quale si sono sottoposte molte forze politiche.