La percezione del cibo è un’autentica esperienza multisensoriale, che coinvolge tanto il palato quanto l’olfatto, il tatto, la vista e persino l’udito e le percezioni termiche. Tutto ciò che circonda il piatto (e chi lo gusta) crea una complessa interazione di stimoli e contribuisce a caratterizzare quel pasto, rendendolo più o meno piacevole, evocativo o memorabile, pienamente appagante o non del tutto soddisfacente.
Anche se non sempre ne siamo consapevoli, la nostra valutazione del cibo prescinde dal semplice gusto di ciò che ci viene servito; dipende piuttosto dalle molteplici informazioni che il cervello elabora contemporaneamente mentre mangiamo e che non riguardano nello specifico solo ciò che di commestibile abbiamo davanti ma anche tutto quello che, in una parola, potremmo definire “atmosfera”. Gli esperti della ristorazione lo sanno, e per questo all’interno dei locali di ultima generazione, tutto (dai colori ai materiali, dalla disposizione dell’arredo alla musica) viene attentamente studiato per creare specifiche suggestioni, che consentano ai clienti di gustare cibo e bevande come parte di un’occasione più ampia e complessa.
Insomma: ciò che scegliamo al ristorante non è solo il cibo proposto dal menù, ma anche tutto il contesto in cui decidiamo di trascorrere il tempo del pasto. Insieme a ogni portata assaporiamo “un momento” e “una situazione”; più questi risultano piacevole e ci mettono a nostro agio, più saremo invogliati a prolungare la permanenza a tavola (magari ordinando un secondo piatto, il dolce e il caffè) e poi a ripetere l’esperienza, tornando di nuovo.
In quanto senso più sviluppato nell’essere umano, la vista è fondamentale nel compimento di questa magia ed è responsabile della prima impressione suscitata dal contesto ma anche dal cibo. Ancor prima della percezione del suo aroma o della sua palatabilità, a influenzare la disponibilità psicologica ad assaggiare un piatto è la sua apparenza, ovvero l’insieme delle informazioni percepite attraverso l’occhio e riguardanti la sua forma, la sua struttura, il suo colore e le loro relazioni con l’ambiente circostante. Va da sé che, in questo gioco di stimolazione sensoriale ed emotiva, la luce rappresenta un elemento imprescindibile, capace di esaltare o svilire la qualità dell’esperienza gastronomica, modificando addirittura l’intensità dell’appetito.
Diversi studi di neurobiologia e fotobiologia hanno dimostrato che un’illuminazione “giusta”, dal punto di vista dell’intensità, della tonalità, del direzionamento, non serve solo a “vedere” (lo spazio così come gli ingredienti nel piatto), ma soprattutto a creare un’aspettativa in grado di influenzare il desiderio di mangiare e la percezione stessa del gusto.
Secondo una ricerca pubblicata nel 2016 sul Journal of Marketing Research, se al ristorante la luce “d’ambiente” è troppo intensa il livello di attenzione dei commensali si innalza fino al 20% in più, inducendoli a compiere scelte più responsabili, e quindi a ordinare cibo più sano (carni bianche, carne alla griglia, pesce al forno, verdure) e in minor quantità rispetto a coloro che consumano i loro pasti in ambienti meno luminosi. Le luci soffuse, infatti, favoriscono uno stato di rilassamento che aiuta a godersi maggiormente il cibo, assaporandolo più lentamente, ma anche abbandonandosi a ordinazioni più impulsive (fritti e dolci).
Anche una volta che il cibo arriva a tavola, è la vista che raccoglie i dati necessari a “pregustarne” l’aspetto ancor prima di averne assaggiato un boccone. Ma per poter davvero “mangiare con gli occhi” occorre non solo vedere il cibo, ma anche coglierne l’aspetto migliore. Il Maestro Gualtiero Marchesi diceva che «ogni piatto ha una sua luce» e, in effetti, la giusta illuminazione trasforma il tavolo in un “palcoscenico del gusto”, sul quale ogni ingrediente viene esaltato nella sua migliore resa cromatica. Se la seduzione dell’occhio è efficace, la carne appare più succulenta, i vegetali più freschi e croccanti, il vino più corposo…
Tra i molti studi condotti per confermare il potente ruolo del colore, è degno di nota l’esperimento attuato dal neuroscienziato Wheatley e riportato sulla rivista Marketing nel 1973. Il ricercatore organizzò una cena in un locale la cui illuminazione non consentiva di riconoscere il colore delle pietanze. Gli invitati cominciarono a mangiare apprezzando una bistecca, delle patate fritte e dei piselli, ma quando vennero ristabilite le condizioni normali di luce, scoprirono che la carne era blu, le patate verdi, i piselli rossi e smisero di mangiare ciò che fino a quel momento gli era sembrato appetibile. Analogamente, nel 1980, ricercatore Dubose dimostrò che gran parte delle persone ha difficoltà a riconoscere una bevanda all’aroma di ciliegia, se questa viene presentata con un colore verde, arrivando persino ad associarla al gusto del kiwi.
Oggi la colorimetria degli alimenti è un settore ben definito che intreccia ottica, psicologia e antropologia e, nell’ambito della ristorazione, giustifica l’attività dei light designer nella ricerca delle soluzioni “visive” migliori, tanto in cucina (per aiutare gli chef a esaltare l’aspetto dei piatti), quanto in sala per indirizzare le percezioni gustative e invogliare i clienti a consumare di più.
In particolare uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del dipartimento di Scienze Gastronomiche dell’Università dell’Arkansas (Stati Uniti) e pubblicato sulla rivista Appetite, ha dimostrato che le luci a incandescenza con vetro azzurrato hanno l’effetto di ridurre l’appetito (soprattutto negli uomini), dal momento che la colorazione bluastra conferita al cibo con questi tipo di illuminazione aumenta il senso di sazietà e, pur lasciando inalterata la percezione dei sapori, spinge a mangiare meno innescando nel cervello un meccanismo “evolutivo” antico e inconscio che insinua il dubbio che il cibo blu sia velenoso. Solo col tempo sopraggiunge una sorta di assuefazione recettoriale che affievolisce il senso di allarme nel cervello e “libera” l’appetito analogamente a quanto accade in presenza di una luce bianca o gialla.
Insomma: la luce può falsare la percezione (visiva e non solo) del cibo, condizionare l’appetito e determinare la piacevolezza complessiva del piatto. Se gli chef e i ristoratori possono sfruttarla per regalare all’ospite un’esperienza emozionale che travolga davvero tutti i sensi, anche a casa è possibile avvantaggiarsi delle conquiste della “psicologia cromatica”, trasformando la luce da stimolo fisico in vero e proprio “ingrediente” in grado di influenzare il nostro comportamento alimentare. Come? Oltre a scegliere bene le lampadine della cucina e della sala da pranzo, ma anche il colore dei piatti. Considerando che piatti e stoviglie azzurri sono quelli stimolano meno l’appetito; quelli verdi rendono il cibo più gustoso, fresco e genuino, e quelli bianchi esaltano alcuni sapori specifici (come la dolcezza dei dessert); quelli grigi suscitano un senso di tristezza e solitudine che potrebbe innescare il meccanismo dell’emotional eating (ovvero la ricerca di “cibo consolatorio”).
Il “gusto” (e la gola) si riconfermano questione non solo di “pancia” ma anche di testa e di occhi. Vedere il cibo nella “giusta luce”, illuminando al meglio la tavola e giocando con gli abbinamenti cromatici dell’apparecchiatura consente di ogni piatto e ogni pasto in un “luogo rassicurate”, in un ricordo, nella realizzazione di un desiderio o sogno.