Emotional eatingI gusti non nascono (solo) dal palato

Preferenze e abitudini alimentari non dipendono solo dall’imprinting culturale e famigliare, dalle mode culinarie e dalle convinzioni sviluppate nel corso della vita. Contano anche la genetica e la capacità del cibo di rievocare ricordi ed emozioni

De gustibus non disputandum est (?)
Smentendo questa massima, gli studiosi di psicologia e neuroscienze si interrogano da tempo sui fattori, soggettivissimi e spesso inconsci, che orientano il modo in cui ciascun individuo assume specifiche decisioni e adotta determinati comportamenti. I gusti e le abitudini a tavola non fanno eccezione e, anche se mai come in questo ambito vige la regola che «Non è buono ciò che è buono, ma è buono ciò che piace », vale però la pena di interrogarsi sulle ragioni che condizionano l’appetibilità di un cibo, la scelta di inserirlo o meno nella propria alimentazione e persino il modo in cui viene percepito al palato.

Sensi, cultura, inconscio… tutto in un piatto!
Genetica, livello di sensibilità gustativa e tattile, esempi familiari ed esposizione ad alimenti diversi nel corso dell’infanzia, condizionamento dei vecchi e nuovi mezzi di comunicazione e marketing, disponibilità economica, trend del momento, fattori culturali e religiosi, aspetto del cibo e della sua confezione, tempo a disposizione per cucinare e mangiare: sono molti i fattori che, notoriamente, influenzano le preferenze alimentari di ogni persona e le sue abitudini a tavola, portandola talvolta a sviluppare una predilezione esclusiva per specifici alimenti e a escluderne completamente altri. Ma un ingrediente spesso sottovalutato è l’inconscio, dove assieme agli altri ricordi latenti, permangono anche quelli legati alle esperienze gastronomiche vissute in passato.

“Sapore” e “gusto” non sono la stessa cosa
Nel 2016 la Società Italiana di Scienze Sensoriali (SISS) ha avviato Italian Taste, uno studio che per 3 anni ha coinvolto circa 3000 italiani, allo scopo di esplorare il nesso sensibilità-gradimento-consumo di un cibo e capire da dove nascessero e/o come si formassero i gusti culinari delle persone. I risultati hanno dimostrano che, se la preferenza per il cibo dolce o salato è innata e la tolleranza per quello amaro o acido si acquisisce con l’esperienza, il livello di gradimento per il “flavour” di determinati alimenti non dipende tanto dalla sensibilità orale ad alcuni sapori (numero di papille gustative e PROP-status) quanto dal tipo di segnali che un cibo è in grado di inviare al cervello.

Neuro gastronomia: l’emozione è servita
Indipendentemente dall’effettiva fame fisica e dall’oggettiva piacevolezza di un sapore, sono i ricordi e le emozioni associati a un dato alimento che lo rendono desiderabile o ripugnante, agendo sul cervello come un vero e proprio interruttore in grado di accendere o spegnere l’appetito e, in alcuni casi, capovolgendo completamente il giudizio e la percezione sensoriale rispetto a un ingrediente o un’intera classe di cibi nel corso della vita. A occuparsi di studiare questi meccanismi e persino il modo in cui il cervello dà vita ai sapori, associandoli alle emozioni, è un particolare ramo di ricerca chiamato neuro gastronomia. Ad essa si deve la scoperta del coinvolgimento nell’alimentazione di specifici centri del sistema nervoso centrale (come i neuroni specchio, il sistema limbico e le vie della memoria) e del fatto che quando si pensa a un piatto si stimolano le stesse aree cerebrali che si attivano quando lo si gusta realmente e che contribuiscono alla creazione della sensazione del sapore.
woman in white shirt eating

Il sapore è un ricordo
Secondo la neuro gastronomia, la percezione e l’aspettativa del sapore sono influenzate dal contesto, dall’ambientazione (luce, colori, profumi, suoni di sottofondo) e dalla presentazione della pietanza, ma anche dai ricordi legati a esperienze precedenti con gli ingredienti che la compongono. Infatti, non solo attraverso il gusto è possibile accedere in qualche modo all’inconscio, ma la memoria è uno degli elementi che creano e modificano l’esperienza alimentare, dal momento che legare le caratteristiche organolettiche di un cibo a una circostanza precisa, stimola la produzione di una serie di ormoni cerebrali che spingono a ripetere o meno una stessa azione gustativa, e quindi a rivivere o evitare un momento preciso della propria vita.

L’interruttore dell’appetito
Nel corso di un recente studio condotto dall’Università del Sussex (Inghilterra) e pubblicato sulla rivista scientifica Current Biology, i ricercatori hanno analizzato il comportamento di un gruppo di lumache appartenenti a una specie molto golosa di zucchero, sottoponendole a un “training avverso”: ogni volta che offrivano loro un alimento dolce, le toccavano in modo da disturbarle e rendere l’esperienza spiacevole, fino al punto da farle desistere dal pasto. Ciò dimostra che più l’esperienza a cui viene associato un dato alimento è negativa, più nel cervello si attiva un meccanismo di rifiuto che, in presenza del cibo in questione, sopprime l’appetito anziché attivarlo. Il fenomeno può durare a lungo, così che un sapore prima desiderabile può restare sgradito per moltissimo tempo o, addirittura, per il resto della vita. E sebbene il cervello delle lumache abbia solo 20.000 neuroni, contri gli 86 miliardi che formano il cervello umano, gli scienziati ritengono plausibile che lo stesso comportamento si verifichi nell’uomo e che la predilezione per un determinato alimento possa essere compromessa dalla presenza di elementi di disturbo associati al suo consumo.

La fame è (anche) un’emozione
Gli esperti parlano di emotional eating per indicare quel desiderio di cibo che non ha nulla a che fare con la fame vera e propria, ma risponde piuttosto a un bisogno di compensazione rispetto a uno stato di sofferenza o disagio interiore. Come nel caso dell’assunzione di alcol e droghe, il meccanismo associato all’emotional eating è quello della ricompensa: il cibo cioè genera una sensazione transitoria di conforto, seguita da sensazioni negative, sensi di colpa e, talvolta, vere e proprie crisi d’astinenza che innescano un circolo vizioso di dipendenza (carving). Nei casi più gravi essa spinge all’alimentazione compulsiva e provoca malessere psicofisico, instabilità emotiva e comportamenti asociali.

La memoria alimentare si costruisce fin dall’infanzia
Il rapporto individuale con il cibo e l’associazione tra alcuni alimenti e le emozioni cominciano a costruirsi fin dai primi anni di vita, quando il legame con il cibo è mediato soprattutto dalla famiglia e dai primi contesti di socialità (asilo, scuola). Secondo gli esperti persino le modalità e le tempistiche di svezzamento e l’esposizione più o meno precoce a una dieta varia, con un’ampia gamma di sapori e consistenze diverse possono influenzare le abitudini dei bambini a tavola. Ma soprattutto contano l’esempio e l’imitazione dei genitori e l’esposizione a un ambiente in cui il cibo viene utilizzato in modo più o meno sano, come pretesto di aggregazione, coinvolgimento e condivisione piuttosto che come ricompensa, consolazione, costrizione o castigo.

Il cibo come premio o punizione
Tra gli errori più frequenti che gli adulti compiono nei confronti dell’alimentazione dei bambini è quello di utilizzare determinati cibi, soprattutto dolci o snack poco sani, come consolazione, premio o pretesto per disinnescare un capriccio, o viceversa, di punire il piccolo privandolo di ciò che gli piace. In questo modo si crea una diretta associazione tra cibo e senso di merito o colpa, che può avere ripercussioni anche gravi sui comportamenti alimentati durante l’adolescenza e l’età adulta. Anche l’imposizione di un cibo sgradito come castigo, infatti, è controproducente, perché invece di abituare il bambino a determinati sapori, può far crescere in lui il desiderio di alimenti “proibiti” (talvolta fino a renderlo incontrollabile) e suscitare un’indelebile repulsione nei confronti di quelli che si è stati obbligati a mangiare controvoglia.

Gli svantaggi della solitudine
Oltre alle abitudini apprese in famiglia, alla memoria e ai meccanismi di compensazione emotiva messi in atto attraverso il cibo, l’atteggiamento individuale a tavola viene influenzato anche dalle condizioni in cui vengono consumati i pasti. Diversi studi dimostrano infatti che mangiare da soli, soprattutto se lo si fa in privato, lontano dagli occhi altrui, spinge a esagerare con le quantità di cibo e a compiere scelte peggiori. Anche in questo caso l’aspetto psico-emotivo è cruciale, dal momento che il fatto di trasgredire il “rituale” della condivisione del cibo sembra provocare un senso di disagio, che viene compensato con più cibo o con tecniche di distrazione che portano a “mangiare facendo altro” (un caso tipico è farlo davanti alla tv) e quindi a prestare meno attenzione all’esperienza in sé, oltre che alle calorie e alla qualità di ciò che si mette nel piatto.

man sitting on cafe while holding smartphone