La pace non è scontataL’infantile presunzione dei pacifisti di non voler essere più coinvolti in una guerra

Il concetto di neutralismo attivo affascina sia la sinistra antagonista sia la destra nazionalista. Entrambi dipingono l’invasione dell’Ucraina come un incidente da evitare e non come una sfida che ci riguarda. Pensano di aver ottenuto il diritto acquisito alla serenità, dimenticando che a garantirla in questi anni è stata la presenza della Nato

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Di fronte a qualunque emergenza, la reazione cognitiva naturale è quella di affidarsi ai pregiudizi e a tutto ciò che li conferma, cioè a non selezionare le teorie che spiegano meglio la realtà che dobbiamo affrontare, ma a selezionare le realtà che giustificano meglio la teoria che non vogliamo abbandonare. 

Che i bias siano naturali, cioè meccanismi propri del modo di funzionare della mente umana, non significa però che non proteggano un contenuto essenzialmente ideologico. Abbiamo dei bias perché abbiamo delle idee, non semplicemente perché abbiamo paure o rabbie da gestire.

Lo abbiamo visto recentemente davanti alla pandemia, che ha svelato quanta superstizione ci sia tanto nella diffidenza, quanto nella fiducia religiosa verso la scienza, e davanti alle crisi economiche pre e post pandemiche, che da oltre un decennio rivelano l’inconsapevolezza dell’opinione pubblica italiana delle ragioni e della fragilità della prosperità occidentale. 

Adesso davanti alla guerra si manifesta in tutta la sua forza questo stesso fenomeno, nel connubio esplosivo tra l’alienazione cognitiva e il fanatismo politico.

L’Italia è contro la guerra – e ci mancherebbe. Ma, testimoniano alcuni sondaggi, confermati dal grande abbraccio pacifista tra Gianfranco Pagliarulo e Matteo Salvini e tra Donatella Di Cesare e Diego Fusaro, è contro la guerra in modo così radicalmente trasversale non solo da non volerla combattere, ma da non volerla neppure ammettere come fatto della storia e quindi, eventualmente, come crimine che sia doveroso perseguire o come aggressione a cui sia legittimo resistere. 

L’Italia è contro la guerra come categoria dello spirito e quindi è contro l’idea di riconoscerne la realtà politica, senza destituirla con un esorcismo verbale. La guerra come non essere, che non può essere se non ci si compromette con esso. Se nella tradizione capitiniana e pannelliana, la violenza suscita la reazione del nonviolento, che contrappone a diversi fini diversi mezzi nel sostegno alla causa dell’aggredito, ma non si sottrae alla provocazione del fatto compiuto e non vi si sottomette, nel pacifismo neutralista (attivamente neutralista, ça va sans dire) la reazione morale obbligata è la dissociazione dalla guerra in sé, dall’aggressore come dall’aggredito; non solo, quindi, la non collaborazione e la resistenza passiva con il violento, ma contestualmente l’auto-distanziamento dal violentato. Dixi et salvavi animam meam, immacolata dagli schizzi del sangue.

Ma come è possibile un pacifismo che sia pura istigazione alla resa e quindi riconoscimento della legge della violenza? Come è possibile che questo neutralismo non solo affascini ampi settori della sinistra super-antagonista e della destra super-nazionalista, ma rappresenti il senso comune di una classe dirigente e di un’opinione pubblica, che continua a vedere l’invasione dell’Ucraina come un incidente che si doveva evitare e non come una sfida che ci riguarda, anche se continuiamo a giurare di non volerla raccogliere e di volere solo essere lasciati fuori da questo regolamento di conti post-sovietico?

La prima ragione è che in Italia (e in buona parte dell’Europa) abbiamo per decenni confuso la pace e i suoi costi, economici e politici, con la rendita di cui abbiamo goduto per una protezione Nato ampiamente esorbitante il contributo, che siamo stati tenuti ad assicurare. Quella pace di cui abbiamo goduto era il risultato di una guerra – quella non guerreggiata, fatta di una escalation militare e di una sfida strategica, che alla fine ha schiantato l’Urss – di cui avevamo il lusso di non sentirci parte.

Ma nessuna pace è gratis. Invece noi abbiamo creduto di avere ormai ottenuto il diritto acquisito alla pace (rectius: di non essere coinvolti nelle guerre, che si sarebbero comunque svolte altrove), come il diritto acquisito di andare in pensione a cinquant’anni e ci ribelliamo sdegnosamente alla realtà, quando si incarica di dimostrare che quei diritti non erano acquisiti per niente. E che entrambe queste ribellioni passino dai palchi della CGIL non è affatto casuale.

La seconda ragione è che in Italia il pacifismo è stato in tutte le sue forme un sottoprodotto dell’anti-atlantismo e dell’anti-europeismo e dunque non contempla guerre, cioè nemici a cui opporsi, che non siano americani o loro alleati. È grottesca tutta la sinistra anpista, quando maledice l’uso delle armi resistenziali in Ucraina, dopo avere fatto (e mai rinnegato) l’epopea di quelle rivoluzionarie in Vietnam. Lo stesso può dirsi della destra antimondialista, che ha maledetto nella pax americana dell’Europa il segno di un perdurante dominio imperiale.

Però, al di là degli opposti estremismi, c’è una debolezza congenita di tutta la politica italiana che ha attraversato la Guerra Fredda in equilibrio tra la lealtà atlantica, l’amicizia sovietica e l’equidistanza tra tutti e con tutti. Un’Italia perfettamente rappresentata dal Lodo Moro degli anni ’70, il patto con Olp, che garantiva ai terroristi palestinesi ampia libertà di manovra, anche in Italia, in cambio dell’immunità dagli attentati sul territorio nazionale. Ecco come abbiamo imparato che si può fare una pace. Negoziando con il violento che ammazzi un po’ più in là.

Infine c’è una terza ragione, ancora più fortemente ideologica: la perdita della coscienza dell’identità tra pace e libertà. Nel momento in cui il valore della pace, come quello dell’autodeterminazione dei popoli, sono assolutizzati e perdono qualunque riferimento ai valori politici delle libertà individuali, dello stato di diritto e della democrazia, la condiscendenza verso regimi assolutistici diventa una conseguenza inevitabile di questa devozione malata a parole feticcio.

Fino agli esiti mostruosi di questi giorni, con italiani illustri che fanno in tv la morale agli ucraini collegati da città sotto le bombe, dicendo loro di accontentarsi della pace di Putin: sempre meglio che essere morti. La pace dei cimiteri per uomini vivi, predicata da uomini liberi, che non vogliono pagare alcun prezzo per una libertà comune.

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