Ogni tanto è giusto dare conto di notizie che, se tra dieci anni o anche tra un mese il link di quest’articolo mi dovesse comparire sott’occhio, neppure io mi ricorderei di cosa stavo parlando. Di quegli scandale du jour che più che del giorno sono del quarto d’ora, e al tramonto già te li sei dimenticati. Ma nel frattempo un po’ di siti hanno titolato «bufera social».
Ieri, per un quarto d’ora c’è stato lo scandalo delle uova. Un tizio – che non conoscevo ma scopro da Google essere un ex telecronista Rai – chiede la chiusura d’un supermercato della periferia romana perché, nel tardo pomeriggio di Pasquetta, avevano finito le uova (quelle di gallina).
Un po’ lo capisco. Se i primi anni in cui vivevo a Roma – quando i supermercati per me erano una novità, e quando ancora a Ferragosto chiudevano – fossero esistiti i social, anch’io mi sarei indignata pubblicamente perché ogni 14 agosto i romani, certi che sarebbero morti di fame dovendo stare un giorno senza far la spesa, facevano rimanere il supermercato senza pane e senza latte. M’indignavo privatamente, beato secolo presocial, e nessuno mi cuoricinava.
Il tizio – che ha evidentemente molto tempo, e il lusso di sprecarlo – s’è indignato pubblicamente, procedendo poi a rispondere a tutti quelli che gli dicevano che stava esagerando, spiegando che lui voleva delle basilari uova, mica il jamón serrano (che scriveva senza accento: non capirò mai perché la gente non usi esempi ortograficamente alla propria portata).
La storia delle uova quasi mi ha distratto dall’indignazione che privatamente mi monopolizzava: quella per il bonus mobili. Lasciate che vi racconti il dramma della fodera.
L’altro giorno entro in un noto negozio di design onde ordinare una fodera di ricambio per una loro famosa poltrona che sta in casa mia dagli anni in cui ero poco ricca. La poltrona non è praticamente mai stata usata (ho più divani e poltrone che chiappe, e dire che ho moltissime chiappe), ma traslocatori inadeguati hanno rovinato accuratamente ogni pezzo prezioso che hanno trasportato, e la sua fodera è ridotta a stracciatella di bufala.
Accade però che l’oggetto abbia, per sua natura estetica, una fodera divisa in varie parti: una per il corpo della poltrona (quella che va cambiata), una per la parte su cui poggiare le gambe, due per le orecchie che fanno da poggiatesta; di diversi colori. Quindi, mi serve solo la parte centrale, e mi serve in un colore e di una stoffa che creino una palette gradevole con le altre.
La commessa è molto gentile (e sembra aver persino voglia di lavorare, il che mi fa pensare che meriterebbe un impiego in un’azienda meno determinata a respingere la clientela), prende nota, mi chiede una foto, domanderà se le misure siano sempre quelle degli anni Ottanta, mi farà sapere.
Quando mi fa sapere, dall’azienda le hanno detto che la poltrona evidentemente va reimbottita, mica posso cavarmela con la fodera, la quale (una specie di federa con due elastici che anche un cinquenne non sveglissimo saprebbe infilare) comunque va messa da personale specializzato.
Tradotto: col cazzo che ti vendiamo mille euro di fodera, quando possiamo vendertene tremila di manutenzione.
Chiedo a un amico del settore: ma questi non pensano che ora mi scoccio e vado da un tappezziere? Mi risponde: «Quelli del design quel problema non se lo pongono: solo la loro stoffa è degna, se ne usi un’altra e lo vengono a sapere sei imputabile di sequestro del mobile».
La tappa successiva è che la povera commessa m’informa, da parte dell’azienda, che la stoffa che ho scelto viene usata solo per fare fodere intere, per la parte che serve a me devo sceglierne un’altra. Le altre, le ho viste in negozio, sembrano delle moquette di motel.
Riepiloghiamo. Ti ordino una fodera fatta apposta per me (è la ragione per cui, per un metro di popeline di cotone, pago mille euro invece dei dodici che costa in un negozio di stoffe), scelgo uno dei tessuti che hai disponibili, e tu decidi che le alternative sono due. O una poltrona di moquette, o – per una poltrona il cui senso estetico sta nella fodera spezzata – un rivestimento intero, tipo Woody Allen vestito da spermatozoo in “Tutto quello che avreste voluto sapere del sesso”. Dev’essere difficilissimo essere un’azienda di design non avendo nessun gusto. Avranno iniziato ad assumere i dirigenti in quota ciechi?
No, scopro aprendo i giornali: c’è il bonus. Cosa gliene frega dei miseri mille euro della mia fodera, quando possono vendere cucine fino a diecimila euro a gente cui le rimborsa la fiscalità generale (cioè: io). Naturalmente corro a vedere le condizioni del bonus mobili per approfittarne anch’io: mentre non riuscivo a comprare la fodera, adocchiavo una stupenda libreria arancione che non mi serve a niente ma mi piacerebbe moltissimo, e ora gongolo giacché le vostre tasse mi devono quattromila euro di libreria. Macché.
Il bonus mobili è solo per chi ha già usato il bonus facciate. Cioè: non solo sei proprietario immobiliare e io, oltre al mio affitto, ho pagato la tua ristrutturazione, ma adesso ti pago pure le poltrone nuove. E io niente. Io qui senza fodera, senza libreria, a pagare non solo le tue detrazioni ma anche lo scotto d’un settore drogato dai bonus. Ci ho messo quattro mesi a farmi installare un lavandino, perché tutti quelli che lavorano nel settore edile erano impegnati a incassare bonus ipertrofici e del mio lavandino sai quanto gliene fregava. Senza il bonus mobili, scommetto che la fodera me l’avrebbero fatta ordinare del colore e del tessuto che volevo.
Dia retta a me, gentile picchiatello che voleva le uova di gallina a Pasquetta: c’è evidentemente un bonus proteine che droga il mercato, svuota gli scaffali, e ci fa restare senza generi di prima necessità (e anche senza beni di lusso). È evidentemente un complotto. Mi unisco alla sua vibrante protesta.