L’ultima incarnazione di Giuseppe Conte è quella del Jean-Luc Mélenchon italiano. Proprio come il personaggio di Balzac, che prima è il carcerato Jacques Collin poi il poliziotto Vautrin e poi l’abate Herrera, Conte è stato un populista di destra all’epoca del suo primo governo, quello dei decreti Salvini da lui firmati, poi è stato un populista né di destra né di sinistra con il suo secondo governo, ora vira verso posizioni di estrema sinistra, sedotto dalla ottima performance di France Insoumise, il partito di Mélenchon, al primo turno delle presidenziali francesi. Punta ad andare alle elezioni da solo, al massimo cercando qualche accordo elettorale in stile “campo largo”: ma quanti elettori del Pd sarebbero pronti a votare lui e i suoi nei collegi uninominali?
Comunque il camaleonte che è in lui si agita. Diventa pacifista l’ex amico di Putin che al consiglio nazionale del M5s di ieri ha detto «no alle armi offensive» proprio mentre il suo rivale Luigi Di Maio dalla Farnesina sta tenendo l’Italia, per quanto sta in lui, dentro la linea della Ue e della Nato, cioè agli antipodi del “pacifismo” tra virgolette dell’avvocato. Ma d’altronde quest’ultimo va dove presume si nasconda il baule dei voti, a caccia di uno spazio elettorale in base agli umori del Paese: è un populismo per così dire istintivo, e dunque del più basso livello.
Sicché, ignorato dall’elettorato di destra e smascherato da quello riformista, Conte si volge laddove l’offerta politica è davvero misera cosa (Articolo Uno, Sinistra italiana) e a pensarci bene nel campetto della sinistra radicale c’è anche un seme dibattistiano gettato alle origini del Movimento che può dare qualche frutto, chissà, con un ennesimo salto mortale carpiato con avvitamento ma senza rete. Senza rete, sì: quale credibilità infatti può avere un uomo politico che ha flirtato con tutti, da Donald Trump a Pier Luigi Bersani, da Angela Merkel (indimenticabile il siparietto nel quale parlava male di Salvini, all’epoca suo alleato) a quel Franco Frattini che egli voleva al Quirinale, uno che ha messo uomini sbagliati ai posti sbagliati (Vecchione, Arcuri), che non ha mai chiarito i suoi riferimenti ideali, che è passato in poco tempo da un’alleanza con Salvini a una con Zingaretti senza battere ciglio e brigò per un Conte-ter con gli amici di Mastella e Ciampolillo?
E perché mai la nuova sinistra dovrebbe riconoscersi in un uomo politico che ha gettato la coerenza delle idee nello stagno del potere a tutti i costi e che oggi fa l’anti-americano quando appena ieri era filo-Donald? La capriola sinistrorsa nel supermarket della politica di Conte contiene in sé il senso disperato dell’ex potente disarcionato: il mio regno per una manciata di voti.
Ci prova, dunque, l’ex punto di riferimento fortissimo dei progressisti a diventare punto di riferimento degli estremisti di sinistra, una galassia permanentemente imbronciata che alterna depressioni improvvise a euforie altrettanto subitanee e sempre in cerca di un leader internazionale e italiano da seguire ma, purtroppo per lei, condannata a vedere i propri capi soccombere uno dopo l’altro, come Nicola Fratoianni e il gruppo dei bersaniani, che hanno tenuto un congresso che non è servito a nulla se non a esaltare il leader di un altro partito, appunto Conte, che non è esattamente il massimo, non essendo peraltro escluso che l’avvocato se li mangi, accomunati dall’odio per Matteo Renzi (che pure un tempo apprezzava: «Conserviamo ancora i messaggini di lode per il nostro governo», raccontò poi l’ex segretario del Pd).
Nessuno è riuscito a portare quest’area oltre il 10 per cento, la cosa è forse nei sogni di Maurizio Landini che finora sta stentando persino con la sua Cgil – perde tanti iscritti – figuriamoci in politica cosa potrebbe combinare. Ecco dunque il personaggio balzachiano, un po’ comico un po’ pauroso, che vede un pertugio per il suo personale futuro, sposare la causa pacifista, «no all’aumento delle spese militari, no all’invio di armi pesanti», schierarsi il 4 aprile contro «il vetero-atlantismo di stampo fideistico unito a uno spirito bellicista», salvo poi affermare cinque giorni dopo che è finita l’era di Mosca.
Elevando così l’ambiguità a grammatica della politica, l’ex premier dapprima non ha voluto scegliere tra Macron e Le Pen felicitandosi col vincitore per aver sbarrato alla destra l’ingresso del’Eliseo un minuto dopo la vittoria. È uno che cerca affannosamente amicizie al Pd, dove può contare ancora su Letta, Boccia e qualcun altro ma ha perso per strada, perché si sono smarriti, i grandi sodali Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti che al Nazareno ormai contano poco, mentre è bellamente ignorato da Mario Draghi al quale cerca di dare fastidio come una zanzara, adesso nientemeno che sulla guerra, e per fortuna che ministro è Di Maio e non lui.
Così gioca la carta del pacifismo imbelle e del salario minimo, scopre ora «le emergenze sociali» dopo che in tre anni di governo ha saputo mettere in campo solo i navigator e qualche assegno in giro per l’Italia: vero, nel M5s pieno di naufraghi nel mare agitato, il presidente del partito può contare su parecchi parlamentari che cercano di salire sulla scialuppa della sinistra radicale prima della tempesta elettorale le cui prime ondate si abbatteranno alle amministrative di giugno (Di Maio aspetta il tracollo per presentare il conto) ma è una zattera fradicia e sconosciuta, per uno come l’avvocato che con la sinistra proprio non c’entra niente, è un mondo che annusa come il cane randagio fiuta l’osso ma di cui non sa nulla, non condivide né idee né movenze.
Altro che Mélenchon, uno cresciuto a pane a Trotzkij, uno che qualche testo sacro lo ha letto e qualche assemblea operaia l’ha fatta e che quando fa un comizio in una banlieue la gente si spella le mani: quello di Giuseppi è solo l’ultimo travestimento di un leader in declino in una politica ridotta a Carnevale di Rio.