Il nuovo libro di Filippo Facci – “La guerra dei trent’anni: 1992-2022. Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa” (Marsilio) – di anni, a dispetto del titolo, non ne racconta trenta, ma solo tre (1992, 1993, 1994). Sufficienti però per dimostrare che Mani Pulite non fu un regime change, né il punto di rottura tra un “prima” e il “dopo” della storia nazionale, ma una sorta auto-sovvertimento del sistema e della gerarchia dei poteri italiani, l’ennesimo ballo in maschera di un’epopea trasformistica, che ha accompagnato l’Italia dai suoi esordi unitari e che di certo non sarebbe potuta finire per mano di uno dei più straordinari campioni dell’arci-italianità, Antonio Di Pietro.
Se i libri su Tangentopoli sono diventati da tempo un genere letterario, Tangentopoli ha rappresentato da subito un genere politico e dal tintinnare delle prime manette, nel 1992, si è registrata una corsa grottesca a diventarne autori ed attori anche da parte leader e partiti (uno per tutti: Umberto Bossi), che sarebbero presto stati pizzicati dai loro beniamini giudiziari con le mani nella marmellata dei finanziamenti illeciti.
La retorica del “partito degli onesti” ha accompagnato da allora le evoluzioni della cosiddetta Seconda Repubblica fino al suo esito naturale: al trionfo dell’ò-né-stà grillina, cioè al rovesciamento delle istituzioni democratiche non dall’esterno, ma dall’interno, e alla liquidazione del sistema politico dei partiti come una sovrastruttura parassitaria e rinunciabile, per un immediato autogoverno popolare. Il compimento ideologico di Mani Pulite: i partiti come ladri non solo di soldi, ma anche di democrazia.
Il libro di Facci è una sorta di diario di bordo della sua personale traversata di quei tre anni assurdi e terribili, iniziati da cronista abusivo di un giornale ufficialmente “di ladri”, cioè L’Avanti, e terminati da autore di libri che nessuno pubblicava, ma che circolavano, suo malgrado, in forma di dossier anonimi. Però da questa cronaca esce anche un affresco realistico e convincente del contesto (in senso sciasciano: del viluppo inestricabile di relazioni e di ricatti), in cui ha preso avvio quella rivoluzione mancata e che ne spiegano tanto il fallimento, quanto l’eternizzazione. “Il tradimento di Mani Pulite” come “La “Resistenza tradita”; “Ora e sempre Mani Pulite” come “Ora e sempre Resistenza”.
Facci, a differenza di molti apologeti della Prima Repubblica, che invertono semplicemente le parti ai buoni e ai cattivi del copione delle procure, evita di raccontare la contro-storia della Repubblica più bella del mondo ammazzata da una magistratura brutta, sporca e fellona. Al contrario spiega molto bene, senza alcuna indulgenza, che ad essere aggredito da Tonino e dai suoi compagni d’arme era il corpo di una Repubblica economicamente collassata e politicamente svanita e alienata, che a Maastricht aveva firmato impegni che non avrebbero potuto essere mantenuti, senza svelare dolorosamente il bluff di una crescita e di un benessere drogati da deficit, debito e svalutazioni.
A partire dal 1992, le inchieste dilagano in un Paese in cui Amato e poi Ciampi devono fare manovre monstre per evitare il default: ne esce così confermata la diceria, propalata a piene mani da politici e gazzettieri di complemento, che l’Italia stesse fallendo perché qualcuno si era rubato i soldi. Un falso dopo l’altro, anzi un falso dentro l’altro. Non era vero che l’Italia era ricca quando si indebitava per mantenere un tenore di vita da “società signorile di massa”, come – ricorda Facci – l’avrebbe definita anni dopo Ricolfi. Ma non era neppure vero che le centinaia di migliaia di miliardi di sovra-indebitamento pubblico, che avevano pagato un patto sociale e un consenso democratico disfunzionale e insostenibile, fossero finiti nelle tasche dei politici. Erano finiti, banalmente, nelle tasche degli italiani; ma erano, per l’appunto, finiti.
Un altro merito e forse la maggiore originalità del libro di Facci è di incrociare le vicende giudiziarie di Tangentopoli con quelle delle inchieste contro la mafia di Falcone e Borsellino. Dal raffronto esce il paradosso di due storie che sembrano procedere esattamente al contrario. Da una parte una pesca a strascico che miete morti, feriti e vittime innocenti (metà degli inquisiti della Procura di Milano uscirà pulita dai processi), che non moralizza affatto la politica e che fa del finto moralizzatore Di Pietro l’uomo più famoso, amato e potente d’Italia. Dall’altra una strategia vincente, che dal maxiprocesso in poi porta alla disarticolazione di Cosa Nostra e che si conclude però con l’isolamento e la morte dei due principali protagonisti. Borsellino abbandonato nella gestione del dossier Mafia e Appalti, archiviato subito dopo la strage di Via D’Amelio. Falcone schifato dall’antimafia combattente, che ne avrebbe in seguito usurpato i titoli di nobiltà, e mascariato come lacchè andreottiano, dopo il suo trasferimento agli Affari Penali di Via Arenula, con l’allora ministro della giustizia Martelli.
Il bilancio di Tangentopoli è politicamente negativo. Ha rafforzato l’idea che la giustizia e lo stato di diritto non siano sinonimi e possano anche essere contrari, quando serve “fare pulizia” e che la tutela giudiziaria della politica sia un fattore, magari sgradevole, ma necessario, di igiene democratica. Dei due leader, a cui Facci riserva nel libro calorose parole di affetto e gratitudine, Craxi e Pannella, fu il secondo a definire icasticamente questo esorcismo, questo abracadabra trasformistico che avrebbe dovuto liberare l’Italia dal maligno del malaffare e della malapolitica e a svelarne la natura nichilista: se si accontenterà di «passare dal conformismo dei clienti alla rivolta dei pezzenti, che con rabbia vogliono solo distruggere il padrone di ieri, questo Paese si autodistruggerà», disse il leader radicale a Mixer il 1 febbraio 1993. È una frase che non è presente nel libro, ma che ne potrebbe essere l’esergo. Ed è una profezia molto precisa su quello che sarebbe accaduto nei trent’anni successivi.