Fratelli di alambicco Perché all’Italia serve un consorzio che tuteli la grappa

L’Istituto Nazionale Grappa ha cambiato il suo nome, dotandosi di una struttura più forte e completa con l'obiettivo di trasformarsi in un’organizzazione simile a quella che protegge e promuove l’aceto balsamico di Modena

Se chiedete a un trentino il significato della parola lambicar vi svelerà senza indugio tutta una filosofia di vita che, in tempi incerti come questi, può tornare davvero utile. Infatti, «darsi da fare per tirare avanti» non si applica solo alla dura vita delle persone che, in tempi passati, dovevano sfamare intere famiglie con poco, ma anche alla fatica di portare avanti i valori tradizionali e la cultura legati a territori e prodotti. Tra questi, c’è anche una storia quasi sacra: quella della grappa. Alla missione di proteggerla e tutelarla dal 3 marzo 2022 si è votato il Consorzio Nazionale di Tutela della Grappa. Cosa può fare l’ennesimo consorzio associativo per un prodotto registrato come Indicazione Geografica (IG) a livello europeo dal 2008? Molto, moltissimo, a iniziare da un cambio di immagine.

Un po’ di storia e qualche numero
La grappa è un distillato ottenuto dalle vinacce, cioè dagli scarti della torchiatura dell’uva da vino e le sue bucce. Da questo dettaglio tecnico deriva un’ulteriore definizione della grappa, ovvero acquavite di vinaccia. Una volta raccolte, le vinacce vengono messe in caldaie di rame – i famosi alambicchi – attraversate da vapore acqueo, incaricato di estrarre la parte alcolica presente nelle vinacce. La cosa più importante è che per parlare di grappa, tutto ciò che la riguarda – dalla materia prima alla distillazione – deve essere fatto in Italia. E qui il Consorzio ha individuato la sua prima missione: combattere la contraffazione. La prima garanzia è arrivata con l’Indicazione Geografica, ma non basta. Il logo del neonato Consorzio, apposto su tutte le bottiglie nate dai produttori associati, sarà la garanzia che quella grappa risponde a tutti i requisiti previsti dal relativo disciplinare.

Nel complesso, la produzione italiana di alcol etilico e acquaviti ha registrato un aumento del 3% nel 2020 rispetto al 2019, con una produzione annua di 1 milione e 109 mila ettanidri. Di questi, grappe e acquaviti si sono attestati su 332.00 ettanidri. Ma il 2020 è stata un’annata da dimenticare per la grappa IG, che nel 2020 ha registrato una flessione del 4% passando nella produzione, passando da 72 mila ettanidri del 2019 ai 69 mila del 2020. Oltre alla richiesta, crollata a causa della pandemia, ha pesato la chiusura del settore Horeca. A tirare il settore è stato l’export che, al contrario, nello stesso anno ha registrato un bilancio positivo, con un incremento del 9,2%, cioè circa 12,4 mila ettanidri mandati oltre confine. Numeri positivi anche per la grappa in bottiglia, che segna un +5%, e per quella sfusa, che si attesta sui 5.012 ettanidri (+32% rispetto al 2019). Nel 2021 i numeri sono migliorati ancora. A oggi le regioni in cui si concentra la produzione sono Veneto, Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Trentino, Alto Adige. Il principale Paese destinatario dell’export di grappa, sia sfusa che in bottiglia, è la Germania.

Grappa, pregiudizio canaglia
Ma il vero problema della grappa non è la pandemia o le crisi internazionali, situazioni contingenti da cui i produttori insieme alle istituzioni possono uscire con nuovi investimenti per piani di sviluppo e crescita. Il problema della grappa in Italia sono gli italiani. Secondo il rapporto “Status e prospettive di sviluppo del mercato della grappa in Italia”, ricerca Nomisma condotta per AssoDistil, il 29% della popolazione compresa tra i 18 e i 73 anni consuma abitualmente il distillato. Di questi, il 43% è di sesso maschile, anche se il 21% delle donne ha dimostrato di amare la grappa. La generazione che la preferisce è quella dei Baby Bommers (32%, over 55), seguita dalla Generazione X (30%, che oggi ha tra i 41 e i 55 anni). Seguono i Millennials (25%) e la Generazione Z (19%). Il consumo di grappa si distribuisce quasi equamente tra nord (29%) e sud (28%), con una maggiore propensione mostrata da persone con una fascia di reddito mensile che va oltre i 2.500 euro (32%). Quindi i più anziani la contemplano tra le proprie scelte, anche se è considerata ancora un guilty pleasure. Infatti, si consuma per lo più in casa (34%) o quando si è ospiti da parenti o amici (28%). Il 25% la chiede come fine pasto al ristorante o in pizzeria, mentre nei wine bar, bar o pub la sua scelta cala al 12%. Il 43% degli intervistati ha affermato di aver consumato grappa, nell’ultimo anno, per stare in compagnia, il 51% perché ne ama il gusto e un altro 33% per le sue proprietà digestive.
La situazione generale di consumo è legata anche alla storia di questo distillato, usato dalle popolazioni più povere come alimento, tanto da essere chiamata “il pane sacro dei poveri” da Carlo Alberto Bauer, autore dell’omonimo ricettario trentino. Si distillava nella baite, tra i monti, al riparo da occhi indiscreti. Quando ne fu vietata la produzione casalinga a causa dell’imposizione del monopolio di Stato, divenne una preziosa merce di scambio da contrabbandare. In Val di Cembra esisteva persino la cosiddetta via dela sgnapa, un comodo sentiero tra i boschi, che scendeva indisturbato nei pressi della strada per i Devigili e il Maso Toldin, sopra Lavis e il Maso Spon. Il sentiero collegava Giovo a Lavis, oggi centro d’eccellenza per la produzione di grappa, grazie alle distillerie di Pilzer e Paolazzi.
Ma le cose stanno cambiando e i primi segnali incoraggianti arrivano dalle scelte d’acquisto. Il 9% dei consumatori ha scelto di comprare grappa online, con valori superiori tra le generazioni più giovani (Generazione Z e Millennials) e i consumatori con una capacità di spesa alta. Nel futuro le prospettive sembrano più rosee. Il 15% sostiene che aumenterà i propri consumi di grappa (a fronte di un 8% che invece afferma che li diminuirà) e a trainare sarà soprattutto il fuori casa contestualmente al ritorno delle occasioni di socialità e al venir meno delle restrizioni nel canale della ristorazione.

Perché all’Italia serve un Consorzio
Nel 1996 le distillerie delle regioni più legate alla grappa vollero creare l’Istituto Nazionale Grappa. All’epoca funzionava come un luogo di studi del prodotto e mezzo per valorizzarlo. Nel corso degli anni, grazie alla collaborazione con AssoDistil, si è giunti alla conquista dell’Indicazione Geografica, che ha sancito l’obbligo del made in Italy per tutti i passaggi di produzione e per la materia prima. Questo traguardo ha sancito il rispetto della tradizione italiana della distillazione, ma anche gli investimenti sul prodotto. Prima si poteva chiamare grappa anche un prodotto della distillazione di vinacce, fatto all’estero.
Come racconta Sebastiano Caffo, oggi presidente del Consorzio Nazionale di Tutela della Grappa, la volontà di trasformarsi in un’organizzazione simile a quella che protegge e promuove l’aceto balsamico di Modena, ha indirizzato gli sforzi verso questa metamorfosi. Quindi sono state aperte le adesioni a tutte le distillerie d’Italia (anche grazie alla sinergia con AssoDistil), con l’obiettivo di riunire distillatori, elaboratori, imbottigliatori e conferitori. Nel Consorzio saranno presenti anche dei comitati regionali, rappresentanti delle varie IG regionali, vere e proprie “Doc” della grappa. «Crediamo nell’associazionismo perché un’unica voce può parlare più forte nelle sedi competenti – spiega Caffo – Ci proponiamo di diventare interfaccia con l’agenzia delle dogane, con il Mipaf, andando a tutelare il lavoro e il prodotto delle distillerie sotto un unico marchio».

Circa la riabilitazione culturale della grappa, il Consorzio si propone di scoraggiare la pratica degli alambicchi clandestini, fuori dalle norme fiscali, ma anche sanitarie, in cui il rischio di imbottigliare anche alcol metilico, sostanza pericolosa per l’uomo, è molto alto. «Negli anni la grappa è cambiata. Prima considerata la bevanda principale di alpini e contadini, oggi è diventato un distillato raffinato. Grappe più morbide, pulite, con meno impurità, sono più gradevoli per il consumatore. Le invecchiate o stravecchie (guai a chiamarle barricate!) stanno ricevendo grandi riscontri: sono prodotti che si avvicinano a un gusto compatibile con i mercati internazionali, al pari di cognac, rum e altri distillati».

È vero, però, che la grappa italiana deve sottostare a regole molto più rigide quando si affaccia in paesi come Giappone e Stati Uniti. Qui i limiti di alcol metilico sono molto più bassi rispetto a quelli nazionali. Demetilando, si ottengono grappe molto neutre e meno significative rispetto a quelle in commercio in Italia. «Bisognerebbe cambiare i requisiti internazionali: lavoreremo anche a questo». Insieme a questo obiettivo, il più pressante resta quello della promozione. Sembra che la grappa stia vivendo un momento d’oro grazie alla mixology e alla sua dimensione meditativa. «La grappa deve andare aventi con la sua identità e il suo carattere: non c’è bisogno di inseguire i mercati. Mi auguro che aumenti l’interesse delle multinazionali per questo prodotto, in modo che si verifichi l’accelerazione che abbiamo osservato per il gin. Ci metteremo al lavoro per “creare” questo nuovo trend».

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