Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2022 in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.
Essendo cresciuta a Chennai, in India, ho avuto l’insolito privilegio di vivere la mia infanzia in una casa che non era stata semplicemente costruita, ma era stata davvero disegnata da un architetto. La casa era accessibile da tutti i lati, con connessioni fluide tra l’interno e l’esterno, e la vita gravitava attorno a uno spazio centrale che era il cuore delle nostre interazioni.
Mi ricordo che stavo lì, guardando su verso il lucernario, e che pensavo come lo spazio attorno a me non fosse semplicemente spazio, ma fosse qualcosa che contribuiva a dare forma alla persona che ero. E pensavo che questo spazio avesse un ruolo di primo piano nella formazione del mio essere. Ora sono un architetto e un’artista, il cui mantra è: “La forma segue il sentimento”. E lavoro con il potenziale poetico che può avere lo spazio nell’evocazione di un’emozione, esplorando concetti come la filosofia del corpo (o cognizione incorporata) – e cioè la nostra reazione corporeo-mentale al mondo che ci circonda – e come la neuroestetica, che è lo studio dei modi in cui il nostro ambiente e le nostre esperienze estetiche ci influenzino.
Gli ambienti in cui viviamo non sono un semplice scenario passivo che ci protegge dagli elementi atmosferici: il modo in cui questi ambienti sono progettati e il modo in cui interagiamo con essi plasma e modella la nostra sensibilità. La forza di questa idea, che è diventata evidente in modo tangibile durante il lockdown, quando le persone hanno passato settimane o mesi nelle stesse poche stanze, ha il potenziale di diventare un appello per l’uguaglianza per quanto riguarda la qualità di tutti i nostri ambienti pubblici e privati, fisici e digitali.
Gli esseri umani sono plasmati, fin nella loro biologia, dagli ambienti che li circondano e dal modo in cui interagiscono con essi. Ogni volta che creiamo degli spazi, indirizziamo le emozioni delle persone e le loro condizioni socioeconomiche e culturali. Nelle nostre città, c’è una precisa corrispondenza tra le condizioni di salute dei cittadini e il codice di avviamento postale della loro zona di residenza. Sia negli spazi pubblici sia in quelli privati, gli architetti e i progettisti hanno il potere di dare forma fisica a un ambiente, che può essere opprimente oppure rigenerante.
Durante la pandemia di Covid-19, la natura delle nostre relazioni con lo spazio è diventata molto più chiara, manifestandosi in modo esponenzialmente più evidente nelle nostre vite, sia in quelle fisiche sia in quelle digitali. Infatti, abbiamo dovuto accettare la sfera digitale come una parte essenziale di quello che siamo e del modo in cui viviamo.
Attraverso la tecnologia abbiamo provato – un po’ sul serio e un po’ per gioco – ad andare avanti nelle nostre vite come facevamo prima della pandemia, anche se in modi nuovi. Abbiamo partecipato a happy hours virtuali, ci siamo adattati alla telemedicina, abbiamo giocato a carte in forma digitale con i nostri amici che vivono in altre città o in altri Stati.
Nel mio primo webinar su Zoom durante il lockdown del 2020, mentre prendevo le misure della mia nuova vita pubblica digitale, ho parlato di un’installazione alla quale avevo lavorato per il Salone del Mobile di Milano del 2019 e che integrava design e tecnologia per dimostrare ai visitatori, attraverso dati e misurazioni in tempo reale, come la natura dello spazio che stavano percorrendo stesse influenzandoli dal punto di vista fisico.
Gli ospiti indossavano dei bracciali disegnati da Google e trascorrevano quindici minuti senza smartphone in tre spazi che erano simili ma diversi quanto ad atmosfera – per i colori, i materiali visibili, l’arredamento, i suoni. I bracciali registravano le reazioni fisiologiche dei visitatori e quando lasciavano quel luogo questi ultimi ricevevano la stampa di un diagramma acquerellato che mostrava loro in quale degli spazi fossero stati più a loro agio.
Dopo la mia presentazione, uno dei partecipanti ha chiesto in che modo si potesse utilizzare il potere dello spazio per combattere la depressione. Non è stata una cosa sorprendente. Dopo tutto, durante la pandemia, quando l’accesso alle nostre normali risorse era interrotto, più di un terzo dei newyorchesi ha riferito sintomi di ansia e depressione, un tasso più che triplo rispetto ai dati americani precedenti la pandemia.
Molti di noi hanno dovuto lottare con questa nuova realtà di isolamento che ci ha reso ipersensibili rispetto ai nostri ambienti. Mentre eravamo rannicchiati nelle nostre case e connessi al mondo e agli altri attraverso i nostri computer, la tecnologia di cui prima ci eravamo forse lamentati ha creato un nuovo spazio per le nostre esistenze: un ibrido fra il nostro mondo fisico e il nostro mondo digitale che ora è la nuova normalità.
Il mondo digitale non è più limitato alla sfera del divertimento, non è più soltanto una distrazione dalla realtà o una rete di informazioni e di strumenti utili per capire come fare le cose, ma per molti di noi è una necessità se vogliamo proseguire le nostre vite quotidiane, qualora ci fosse richiesto di lavorare da casa, qualora dovessimo sbarcare il lunario destreggiandoci tra lavori part-time per le app che fanno consegne a domicilio o qualora volessimo tenerci in contatto con i nostri cari che non possiamo visitare di persona perché non possiamo viaggiare. E c’è di più: il mondo digitale ha un ruolo altrettanto importante di quello degli ambienti fisici nel plasmare il modo in cui ci sentiamo.
Una pagina web non accessibile o una app malfunzionante, che prima avrebbero potuto essere al massimo una seccatura, ora possono avere un impatto reale sulla nostra qualità della vita. Cosa ancor più importante, la tecnologia, come nostro connettore emotivo, è uno spazio vitale per la nostra umanità. Durante la pandemia è stata la cima di salvataggio che ci ha connessi ai nostri cari, ai nostri medici, ai nostri sistemi di sostegno ed è stata il luogo in cui catalizzare il cambiamento sociale. La tecnologia si è assicurata così un nuovo spazio nella nostra psiche, un habitat, con il suo potere di influenzare il “chi siamo” a un livello più profondo che mai.
Ma la tecnologia è stata anche progettata per colpire le nostre debolezze – per testare la nostra attenzione, per giocare con le nostre paure, fomentando i nostri desideri materiali e accrescendo la nostra presunzione. I titoli che acchiappano, i contenuti irrealistici e ritoccati sui social media e le pubblicità pop-up che promettono soldi rapidi hanno il preciso obiettivo di farci cliccare o almeno di conquistare un attimo della nostra attenzione, perché agli occhi delle aziende tecnologiche non siamo altro che i nostri dati, che sarebbero inutili se non servissero a tracciare le nostre abitudini.
Il mondo dei dati digitali è il luogo dove si possono fare i soldi e si può acquisire potere. Questo atteggiamento ha serie implicazioni, visto quanto il mondo digitale è ormai intrecciato con le nostre vite quotidiane. Sappiamo che il nuovo mondo digitale è qui per restare. Dalla moda all’arte all’architettura, i nostri avatar digitali stanno diventando parte della nostra realtà fisica.
Esplorando il potenziale di questo terreno ibrido, che fa parte sia delle nostre vite pubbliche sia di quelle private, stiamo ancora imparando come affrontarlo con la consapevolezza che ciò che noi rendiamo pubblico al mondo poi cambia il modo in cui il mondo ci influenza. È un processo circolare di reazioni simile a quello che vediamo nella buona architettura e nel buon design – se una casa o un quartiere progettati bene contribuiscono a far sì che le persone vivano esistenze più felici e più sane, queste persone potranno poi dirigere questa loro energia positiva verso le loro comunità.
Passando sempre più tempo in un mondo digitalizzato, piano piano e per gradi lo possiamo cambiare, come piano piano, negli scorsi decenni, abbiamo cambiato internet. Ma se continueremo a utilizzare il mondo digitale come uno sfogo per le nostre paure e le nostre ansie (rendendolo il posto in cui rafforzare i nostri pregiudizi attraverso i social media o in cui diffondere teorie cospirative attraverso i forum) o se lo utilizzeremo come una piattaforma per acquisire denaro e potere, allora credo che esso si svilupperà come uno strumento per incoraggiare sempre di più questo tipo di comportamenti in futuro.
Se osserviamo con uno sguardo di lunga gittata sul futuro l’accresciuta presenza della tecnologia nella nostra quotidianità post-pandemica, si capisce che potremo salvaguardare il nostro benessere soltanto se ci ricorderemo quanto potere gli spazi (fisici, digitali o ibridi) abbiano su di noi. E questo lo si inizia a fare partendo dall’umanizzazione della tecnologia.
Credo che progettando i nostri spazi fisici perché rispecchino il modo in cui vogliamo sentirci e vogliamo interagire gli uni con gli altri, e plasmando i nostri spazi digitali attraverso le lenti dell’equità e dell’empatia, possiamo dare forma a un futuro in cui, insieme alla tecnologia, possiamo evolvere anche noi in una versione migliore di noi stessi.
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