Era prevedibile che la guerra della Russia all’Ucraina e all’Occidente avrebbe rapidamente sostituito il Covid nel grande laboratorio dell’inquinamento informativo, dell’alienazione cognitiva e del dirottamento del dibattito pubblico in una direzione cospiratoria.
Non stupisce quindi che le piattaforme mediatiche e digitali, che per due anni hanno presentato la pandemia come un esperimento politico pianificato ai fini del grande reset planetario e i vaccini come strumento di biopolizia, oggi siano le più scatenate a riscrivere secondo la vulgata putiniana pure la vicenda bellica, nel rovesciamento grottescamente accusatorio della favola di Fedro, dando quindi ragione al lupus superior – la Russia – sugli oltraggi subiti dall’agnus inferior – l’Ucraina.
Ma a fare male al principio e al mestiere della libera stampa non sono solo i piazzisti delle verità alternative e i copia-incollatori delle veline di Mosca, ma anche i gerenti del circo Barnum di giornali e (soprattutto) tv, ridotti a palcoscenico dell’informazione spettacolo, della lotta nel fango dei nani e delle ballerine, dei personaggismi e dei padreternismi, delle «parole importanti» e dei «dubbi legittimi», di «quello che c’è dietro» e di «quello che non ci dicono», del «non si permetta» e del «vergognatevi», cioè a un grande mercato di bias trasformati in merce, in una pastura ghiottissima per spettatori che non vedono l’ora di sapere quello che hanno sempre saputo e di capire quello che hanno sempre capito.
Così di questa guerra si continua a parlare su giornali e tv come si è parlato per due anni di Covid, tra negazionismi e scandalismi giustapposti e orchestrati. Insomma si parla di una rappresentazione propagandistica e contro-propagandistica della guerra, che non ha praticamente relazioni con la sua realtà, con quello che ci aspetta, con quello che i cittadini hanno non solo il diritto di conoscere, ma anche il dovere di comprendere della Russia di Putin e della sua vendetta incubata per due decenni e esplosa esattamente come e dove era previsto che esplodesse, mentre la gran parte della politica italiana, che ha passato due decenni a negare o a relativizzare la sfida putiniana, ancora pochi giorni prima dell’aggressione diceva agli americani – agli americani! – di calmarsi e di non gettare benzina sul fuoco.
Ecco, l’informazione italiana – non gli epigoni di Giulietto Chiesa, proprio quelli rispettabili, quelli scientifici, quelli studiati, che ostentano il disallineamento dalla contesa trovando troppo volgare simpatizzare per un popolo aggredito – continua a discutere di questo, cioè di altro rispetto alla guerra: della benzina sul fuoco americana – forse che sì, forse che no e domani si ricomincia. E poi – lieve variazione sul tema – si passa a discutere di cosa vuole davvero l’America, cosa vuole davvero l’Europa, cosa vuole davvero l’Ucraina – cosa vuole l’Ucraina! – e si finisce col rappresentare questa guerra come un effetto collaterale dell’indecisione o della protervia occidentale e Putin stesso come un personaggio di cui, in fondo in fondo, saremmo noi gli autori: non i suoi filosofi di corte, gli ideologici dell’Eurasia, i dinamitardi dell’escatologia nichilista e la mafia dei siloviki.
Anche il mito della complessità è diventato un espediente elusivo e digressivo per non guardare il fondo dell’abisso di questa guerra, con le sue Bucha conosciute e sconosciute, con le sue domande fondamentali sulla responsabilità politica della vita e della morte, sul rapporto tra la violenza e l’obbedienza e tra la libertà e il potere. Senza il senso della tragedia, non si può avere, né trasmettere il senso della realtà: della nostra e della loro, di quel che sta davvero accadendo in Ucraina e di quel che sta accadendo in Italia sul piano economico e sociale e che continuerebbe ugualmente ad accadere anche se l’Italia diventasse, come vorrebbero Conte e Salvini, una seconda Ungheria.
Le tv, i giornali e, a rimorchio, le camere dell’eco dei social trasformano ogni giorno la tragedia della guerra nello spettacolo di una pace immaginaria, che gli italiani finiscono per considerare a portata di mano, ma pregiudicata dalla pervicace e irragionevole indisponibilità ucraina al compromesso. Un esempio paradigmatico di questa informazione che mastica, rumina e rimastica la verità fino a trasformarla in un bolo di menzogne è quello rappresentato negli ultimi giorni dalla questione del presunto conflitto a distanza tra Zelensky e Stoltenberg.
In realtà il Presidente ucraino ha detto che per fermare la guerra e iniziare il negoziato è necessario che la Russia torni sulle posizioni precedenti il 24 febbraio (data di inizio della nuova aggressione) e Stoltenberg ha affermato che la Nato non riconoscerà mai l’annessione illegale della Crimea, dichiarata unilateralmente da Mosca e che per quanto riguarda una possibile soluzione di pace si rimetterà comunque alla decisione del governo e del popolo ucraino.
Il racconto è stato capovolto: agli italiani è stato raccontato attraverso ogni canale informativo che Zelensky avrebbe offerto alla Russia la Crimea e le porzioni di Donbass occupate prima del 24 febbraio e che la Nato avrebbe bloccato la sua iniziativa di pace dichiarandosi indisponibile ad accettare le concessioni di Kiev. Morale: sono la Nato e gli Usa a non volere la pace e a costringere Zelensky alla guerra.
Con una informazione così non ci si può stupire che gli italiani siano inclini a pensare che per propiziare la pace sia meglio disarmare gli aggrediti e i politici populisti si ingegnino a rafforzare questa inclinazione e a salutarla come una prova di saggezza, non come una contraddizione o un’ipocrisia. La cattiva coscienza giornalistica finisce così per rispecchiarsi nella cattiva coscienza politica di chi smercia e conforta l’illusione che le cose (per noi) si possano aggiustare chiamandosi fuori dal conflitto, che si possa fermare il mondo chiedendo di scenderne e autoproclamando la pace nazionale di una guerra internazionale.