Con il discorso di Elmau, in Baviera, dove si è tenuto il G7, Mario Draghi ha reso nel modo più chiaro il senso delle prossime elezioni politiche italiane e in un certo senso anche quelle di midterm negli Stati Uniti: lo scontro a livello mondiale è tra populismo e antipopulismo. Mai il presidente del Consiglio aveva adoperato questa contraddizione e utilizzato il termine «populismo».
Se si passa la forzatura, è qualcosa di analogo al conflitto tra totalitarismi e democrazie negli anni tra le due guerre mondiali. Nel 1939 il grande romanziere Stefan Zweig scriveva a un illustre collega, Hermann Broch: «In origine, un’istanza più alta si ergeva sopra lo Stato, dapprima la Chiesa, poi in epoca liberale la filosofia morale e l’idealismo cosmopolita: potenze invisibili a cui ci si poteva appellare e che con la loro autorità impedivano violenze e abusi all’interno del proprio campo d’azione. Esisteva un’opinione pubblica mondiale temuta dagli aspiranti dittatori. Durante la guerra la divisione del mondo in due gruppi ha distrutto questa istanza. Tale suddivisione si è quindi più volte confermata attraverso diverse azioni politico-rivoluzionarie (ad esempio il fascismo e il nazionalsocialismo). Va dunque ricostruita da capo – proseguiva Zweig – e non sono sicuro che il rinnovamento dell’organizzazione interna delle vecchie democrazie sia sufficiente, perché le democrazie, che prima esprimevano l’opinione pubblica mondiale, si ritrovano adesso a esercitare per loro stessa natura una resistenza contro l’altra metà del mondo».
La storia si ripete, e oggi è la guerra di Vladimir Putin alla democrazia ucraina a fare da spartiacque, i populisti con Mosca, gli antipopulisti-democratici con Kiev. Si chiude dunque così una lunghissima discussione, molto italiana, sulla sussistenza del conflitto destra-sinistra, un clivage che per così dire si prolunga e si invera in quello tra populismo e democrazia, tra società chiusa e società aperta, tra reazione e riforme.
In questo quadro giorno dopo giorno Mario Draghi sta assurgendo al ruolo di grande protagonista della battaglia antipopulista, sia sul piano nazionale (dove ha contribuito non poco a distruggere l’antipolitica grillina), sia su quello internazionale (nel quale sta guidando gli occidentali più timidi alla nuova e dura fase della guerra economica alla Russia: è questo il risultato più importante del G7 bavarese).
E così a Elmau ha dato la linea agli alleati: facciamo di tutto per raffreddare l’inflazione perché, come appunto insegna la storia, anche con esiti tragici, una pesante crisi economica porta inevitabilmente vento nelle vele dei populisti, delle destre in particolare – aggiungiamo noi. E infatti le destre estreme, quelle di Donald Trump e di Giorgia Meloni (Marine Le Pen ha già incassato alle Legislative quel che doveva incassare), appaiono in forte ascesa, sicché governare la crisi dentro un’ottica democratica diventa l’imperativo politico dei riformisti.
Questo è il senso della messaggio di Draghi, un messaggio tanto più coraggioso in quanto lui i populisti, seppure con le ruote sgonfie, ce l’ha nel suo governo: eppure la prospettiva deve sembrargli talmente grave da far risuonare adesso un appello che ha una curvatura persino drammatica. Non venendo questa lezione da un politologo ma dal presidente del Consiglio italiano è difficile pensare che quello che chiamiamo draghismo (il cui nocciolo è proprio in questo appello) sia scindibile da Mario Draghi in carne e ossa.
Si fa sapere che il presidente del Consiglio si irrita quando viene tirato per la giacca come se fosse un segretario di partito in pectore, e ha ragione, ma è indubitabile che la lotta politica dei prossimi mesi e la campagna elettorale per il nuovo Parlamento ruoteranno proprio attorno allo schema delineato da Draghi e già oggi nessuno può far finta che con il discorso bavarese quest’ultimo si sia oggettivamente (non soggettivamente, almeno per ora) calato dentro il conflitto epocale tra populismo e democrazia in Italia.
Come minimo, l’ex presidente della Banca centrale europea ha per così dire apparecchiato il tavolo indicando i rischi del menù. Chi è d’accordo con la sua analisi, cioè i democratici e i riformisti di ogni schieramento, dovranno chiedergli di sedersi a capotavola, nella forma che lui sceglierà, sapendo che l’Italia non è Verona o Catanzaro. Una cosa non possono fare i riformisti e segnatamente il Partito democratico rimuovere la questione-Draghi. Dopo il messaggio antipopulista del presidente del Consiglio questo non è più possibile.