Conquistati 7 capoluoghi su 13, Enrico Letta ha tutte le ragioni per festeggiare il risultato dei ballottaggi. Conquistare la Verona leghista, cantando Bella ciao, e Catanzaro da sempre di centrodestra, riportare Parma a casa dopo 24 anni, espugnare Monza, nonostante la serie A con i soldi di Silvio Berlusconi, agguantare Piacenza e Parma, rimettendo tutta la sinistra sulla retta via Emilia, per lui è veramente una grande soddisfazione. Attenzione però all’illusione ottica-politica, a non lasciarsi andare a facili entusiasmi, a credere che ormai la strada per le Politiche del 2023 sia in discesa.
Intanto, i successi nelle città citate sono dovute in grande parte al valore aggiunto dei candidati civici. Damiano Tommasi a Verona ne è l’esempio più eclatante. Il Partito democratico da solo non è capace di andare oltre i suoi confini, il partito a vocazione maggioritaria rimane un’utopia. Le comunali poi sono elezioni che al secondo turno si sostanziano in un organo monocratico, il sindaco: un volto, una storia che esprime credibilità e, cosa che non manca mai, simpatia.
Alle Politiche tutto questo scompare, al massimo puoi dire chi indicherai al capo dello Stato come presidente del Consiglio, se avrai la maggioranza parlamentare in entrambi le Camere. Cosa che nelle ultime elezioni è diventata una chimera, con tutto ciò che n’è seguito (governi tra partiti che si odiano, unità nazionale, ribaltoni).
Letta ha un nome da proporre durante la campagna elettorale, oltre al suo ovviamente? Si dirà: il sistema elettorale non ti obbliga a farlo. È vero, ma dopo l’esperienza con Mario Draghi sarà difficile sottrarsi a questo atto di chiarezza nei confronti degli elettori, come del resto si faceva durante gli scontri epici tra Ulivo e la Casa della libertà, fra Romano Prodi e Silvio Berlusconi.
E allora, nessun dorma. Facendo affidamento sulle controproducenti, per loro, baruffe tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Cosa da non escludere, sia chiaro: ne abbiamo avuto prova in questa tornata amministrativa, ne avremo presto una riprova nella scelta del candidato governatore siciliano, e poi di quello della Lombardia. Per non parlare di cosa succederà quando dovranno spartirsi i collegi uninominali, con Fratelli d’Italia che si conferma primo partito (e ha sfondato al nord). E poi dovranno regalare collegi, nonostante la penuria di posti in Parlamento, ai cespugli di centro, a Giovanni Toti, a Maurizio Lupi, a Lorenzo Cesa.
Se invece dovessero trovare la quadra di cui parlava sempre Umberto Bossi, cosa potrà succedere? Volendo continuare a parlare di queste comunali, il centrodestra quando si ritrova unito è un osso duro. Memento, Genova, Palermo, L’Aquila, vinte al primo turno. È vero, la Lega al nord è spompata, non basta il travaso di voti alla Meloni. E non basta nemmeno essere uniti formalmente, mettersi una maschera e far finta di essere sani.
Se ne rende conto il governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, quando dice che il centrodestra unito non vince a prescindere se non ha «una seria proposta di governo». Questo vale per tutti. Come l’astensionismo.
Questa perniciosa disaffezione degli italiani al voto prima colpiva innanzitutto il centrodestra, oggi anche il centrosinistra. Ma siamo arrivati al punto veramente dolente: quale sarebbe il centrosinistra o campo largo che dir si voglia? Il Pd e chi altro? I Cinquestelle di Giuseppe Conte o il neo partitino di Luigi Di Maio? O tutte e due insieme? Si dividono, si azzannano, si fanno le corna dagli scranni dell’emiciclo di Montecitorio e poi bellamente si rimettono insieme, si siedono attorno a un tavolo per spartirsi i collegi da buoni fratelli coltelli? Macché, in politica in questi casi l’uno vuole la morte dell’altro.
E che fanno, con il Rosatellum, vanno tutti a chiedere trasfusioni di sangue al Pd, il partito di Bibbiano, che deve confermare i suoi parlamentari secondo la regola che squadra che vince, con Letta, non si tocca? Conte e Di Maio si mangeranno le mani nell’aver voluto la riduzione del numero dei parlamentari sull’onda della pulsione anticasta. In cambio poi della legge proporzionale: il Pd di Nicola Zingaretti non l’ottenne e Letta ora non sa come scrollarsi di dosso tutte queste anime morte che gli ronzano attorno da quando hanno visto che i Dem qua e là vincono.
Già, dato che ci siamo, a proposito di populismo rinnegato dal ministro degli Esteri. Ora predica che non bisogna offrire show mediatici, come quello fatto da lui e dai suoi descamisados dal balcone di Palazzo Chigi quando annunciarono la fine della povertà in Italia. Consiglio vivamente di andare a legge sulla Stampa di ieri un editoriale dell’economista Veronica De Romanis su quanto ci costa la svolta di Luigi Di Maio. Non ve lo sintetizzo per lasciarvi il gusto sgradevole di un severo reflusso gastroesofageo.
Per vincere occorre presentare una proposta lineare, credibile, che non faccia ridere troppo, chiara nelle proposte di governo e magari con la faccia e il curriculum di un uomo o di una donna. Letta pronuncerà il nome di Mario Draghi, che guarda caso al G7 ha messo in guardia dal populismo aprendo alcuni scenari interessanti di cui su Linkiesta parla Mario Lavia?
Forse no, lo lascerà fare a Carlo Calenda. Non lo farà perché a Palazzo Chigi ci vuole andar lui, dicono le malelingue. Non lo farà perché alla sua sinistra, quel che ne resta, non ce la farebbero a chiedere i voti per un ex banchiere. Non lo farà neanche Conte, perché Draghi è il più convinto, coerente assertore del contrasto armato al signor Putin, il più lucido nel proporre un tetto al prezzo del gas.
Per farla breve, meglio che Letta passi dall’ottico per controllare bene la vista e non si lasci prendere dall’entusiasmo. Carlo Calenda ha confermato che andrà da solo con un Terzo Polo. Dietro e attorno al leader Dem ci sono ex grandi dighe che crollano e non basta dire che prima si fanno accordi sulle cose da fare, poi vengono le alleanze. È la solita tiritera quando si finisce nel loop.