Abuso sessuale La gogna pubblica del revenge porn e il ruolo stigmatizzato delle donne

Francesca Florio, in “Non chiamatelo Revenge Porn. Storie di vittime presunte colpevoli” (Mondadori), spiega in cosa consiste il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. E perché è necessario tutelarsi

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Il sapere, non solo rende liberi, come diceva Socrate, ma è anche un potentissimo strumento di protezione.

Le storie che abbiamo raccontato sono solo alcuni esempi dei mille modi in cui la violenza sessuale digitale può manifestarsi, e se in medicina vale l’antico principio per cui prevenire è meglio che curare, nel diritto penale può specularmente dirsi che prevenire è meglio che punire. Di seguito, troverete una breve rassegna delle fattispecie incriminatrici (dunque dei reati esistenti nel nostro ordinamento) che si possono applicare in concreto nei casi genericamente riconducibili al revenge porn, oltre a una guida pratica di prevenzione che può aiutare le vittime ad agire subito per tutelarsi nel modo più efficace possibile.

Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (articolo 612-ter c.p.)

Quello che i media continuano impropriamente a chiamare reato di revenge porn, altro non è che il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, introdotto nel nostro codice penale dal cosiddetto “Codice rosso” (legge 19 luglio 2019, n. 69) e disciplinato dall’articolo 612-ter. Questo reato punisce ogni tipo di condivisione (e nello specifico, l’invio, la consegna, la cessione, la pubblicazione o la diffusione) di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate.

In buona sostanza, è punita la divulgazione, in qualsiasi modo avvenga, di foto o video a contenuto sessuale, creati con il consenso della vittima la quale, però, voleva rimanessero privati. La legge, tuttavia, nel punire la diffusione di queste immagini prevede una regola diversa a seconda di come l’autore del reato ne sia entrato in possesso.

Si distinguono, infatti, due macrocategorie:
1. soggetti che posseggono le immagini perché le hanno sottratte oppure perché hanno partecipato alla loro creazione (per esempio, il caso in cui una coppia realizzi un sextape amatoriale);
2. soggetti che posseggono le immagini per qualsiasi altro motivo (per esempio, perché sono state inviate loro direttamente dalla vittima durante il sexting, oppure perché gli sono state inoltrate da altri).

Nella prima circostanza (nel caso in cui le immagini siano state diffuse da qualcuno che le ha sottratte o che ha partecipato alla loro creazione) l’autore del reato è sempre punibile per il solo fatto di averle volontariamente pubblicate senza il consenso della vittima, indipendentemente da quale fosse il suo scopo quando ha deciso di diffonderle.
Nel caso, invece, in cui l’autore del reato sia venuto in possesso delle foto o dei video per altri motivi (compresa l’eventualità che gli siano stati inviati direttamente dalla vittima), le sue azioni saranno punibili solo se siano state commesse allo specifico scopo di recare un danno alla vittima.

La pena prevista per questo reato è identica in entrambi i casi e consiste nella reclusione da un minimo di un anno a un massimo di sei e nella multa da un minimo di 5000 a un massimo di 15.000 euro.

Il reato è aggravato, dunque la pena è aumentata in relazione a una serie di ipotesi specifiche:

1. quando è commesso da un coniuge, da un ex coniuge, o da una persona con la quale la vittima ha o ha avuto una relazione affettiva;

2. quando è stato commesso utilizzando strumenti tecnologici come smartphone, computer, televisioni, DVD o rete Internet;

3. quando la vittima versa in condizione di inferiorità fisica o psichica oppure è una donna incinta.

Il delitto è procedibile a querela della persona offesa, ciò significa che per avviare l’iter che porterà a un eventuale processo penale sarà necessaria una denuncia da parte della vittima che richiede espressamente che il colpevole sia identificato e punito.
Questa regola, comunque, non vale sempre. È previsto, infatti, che quando il delitto sia stato commesso in danno di una donna in stato di gravidanza o comunque una persona fragile, lo Stato prosegua autonomamente senza necessità di una richiesta da parte della persona offesa (la cosiddetta “procedibilità d’ufficio”); lo stesso accade quando il reato è connesso a un altro per il quale è prevista, appunto, la procedibilità d’ufficio.

Immaginiamo due casi.
1. Giuseppe e Carla sono fidanzati e stanno per sposarsi.
Poco prima del matrimonio Giuseppe scopre che Carla lo tradisce con il suo migliore amico, così, per vendicarsi di lei e umiliarla di fronte a tutti, invia tramite mail agli invitati al matrimonio un filmato, girato consensualmente mesi prima, in cui lui e Carla hanno dei rapporti sessuali. Giuseppe ha commesso il reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, ma le indagini possono essere avviate solo se Carla sporge formale querela e dunque lo richiede.

2. Anna, ossessionata da un’attrice famosa, decide di rapinarla per impossessarsi del suo telefono e avere accesso alle sue foto private; si apposta dietro la casa della vittima e quando la vede uscire le punta un coltello alla gola, intimandole di consegnarle la borsa con tutti i suoi averi. Una volta ottenuto lo smartphone, Anna trova delle immagini dell’attrice in atteggiamenti intimi con il suo compagno e decide di pubblicarle online. In questo caso, Anna commette lo stesso reato di Giuseppe, ma, al contrario di lui, per ottenere le foto ha commesso anche una rapina; dato che la rapina è un reato procedibile d’ufficio, non sarà necessario che l’attrice sporga formale querela affinché siano avviate delle indagini e successivamente un processo nei confronti della responsabile della rapina oltre che del delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti.

Da Non chiamatelo Revenge porn. Storie di vittime presunte colpevoli di Francesca Florio (Mondadori), 192 pagine, 18 euro

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