Daniel Humm, lo chef dell’Eleven Madison Park, tristellato newyorkese, che l’anno scorso ha modificato il suo menu rendendolo completamente a base vegetale, ha alzato ancora di più l’asticella, con un nuovo servizio, Eleven Madison Home. Il servizio, in abbonamento, punta a incoraggiare i clienti a seguire una dieta a base vegetale per almeno un giorno alla settimana, anche a casa propria.
Lo chef sostiene che anche solo questa piccola modifica alle nostre abitudini alimentari avrebbe un impatto fortemente positivo sul Pianeta. Ovviamente, lo chef ne fa anche una questione di business: Il pack che arriva a casa dei suoi clienti ogni settimana include una giornata di pasti che consente agli abbonati di godersi le scoperte del ristorante comodamente da casa, imparando al contempo a conoscere un mondo di contadini, artigiani, sapori e ingredienti plant based.
In realtà il Meatfree Monday è da tempo un movimento che promuove questa scelta, e che negli anni ha raccolto sempre più adesioni: il lunedì privo di proteine animali è una pratica che non stravolge le nostre abitudini alimentari ma aiuta sicuramente ad avere più controllo sulle nostre scelte.
Daniel Humm ha affermato che trasformare Eleven Madison Park in un ristorante a base vegetale è stata l’esperienza più emozionante della sua intera carriera di chef: «È stato significativo mi ha permesso di guardare oltre il consueto. Stiamo scrivendo una lingua completamente nuova, che ci sfida ad essere creativi e a imparare continuamente. È eccitante cucinare e mangiare in questo modo. Ciò che inizialmente pensavamo potesse essere limitante si è invece rivelato entusiasmante», ha affermato. Davanti a questa e ad altre scelte simili e riflessioni che la cucina gastronomica si pone in questo momento storico, ci sorge una domanda: il lusso e con lui l’alta cucina, per definizione, non sono sostenibili. Perché ci dobbiamo sforzare di farli diventare tali? Perché vogliamo snaturare questa sua caratteristica intrinseca?
Enrico Costanza, culinary gardener, che con la gestione degli orti degli chef, di sostenibilità e alta cucina se ne intende, ha le idee molto chiare: «Principalmente, c’è un problema di abitudine, perché siamo stati viziati dalla varietà, ad avere tutto in abbondanza e in tutte le stagioni ed è per questo che si aprono scenari assai complessi. Per esempio, parliamo del settore ortofrutticolo. Se in pieno inverno un ristorante stellato del nord coltiva tenere foglioline e fiori in una serra riscaldata in modo convenzionale, la sostenibilità va a farsi benedire. Ma, sempre al nord, anche coltivare e avere le prime zucchine in aprile diventa «insostenibile».
Dall’altra parte, siamo certi che a febbraio sia sostenibile farsi arrivare le suddette zucchine dal sud? O magari via aereo dall’Africa? Cioè da paesi di cui siamo ignari di come vengano coltivate? Se dovessimo rispettare la stagionalità, nei lunghi mesi freddi del nord Italia, come unici prodotti freschi, avremmo solo brassicacee e radici: impensabile, no? Insomma, il re è nudo, ma vai a togliere il pomodoro in inverno? E non apriamo il discorso della gdo… Nell’alta ristorazione si sono viste ciliegie cilene in febbraio? Ecco che adesso i ristoranti si ritrovano sotto accusa, sotto processo: le forze della sostenibilità hanno fatto irruzione nelle cucine e hanno chiesto spiegazioni e giustificazioni su tutto. Dal vino alla tovaglia, dalla verdura alla carne, sino ai costi del personale e alla qualità di vita dei componenti delle brigate, perché sì, anche queste ultime due voci rientrano nel discorso della sostenibilità. E così gli chef si producono spesso in spiegazioni dettagliate su tutto ciò che entra in cucina: le uova, la carne, il pesce, ti sanno persino dire quanta acqua è stata utilizzata per irrigare l’orto. Sono pronti a spiegare, in uno storytelling tutto pandemico, che il delivery è stato fatto senza plastica e che i menù sono stati scritti su carta riciclata. Dunque sì che c’è uno sforzo, una fatica nel dover giustificare la sostenibilità nell’alta ristorazione, compito però tutt’altro che semplice».
Perché come in tutte le questioni di principio, la verità non sta mai solo in un assunto. Prosegue Costanza: «Personalmente penso questo: esistono chef che hanno preso a cuore l’argomento, che hanno adottato misure strumentali serie, certo che ci sono, ma sembra che tale pratica – intendiamoci, encomiabile – li abbia come allontanati dalla cucina; sono diventati ambasciatori della sostenibilità, ma a caro prezzo: la qualità dei piatti ne ha risentito. Ma ovvio, bisogna vedere caso e caso».
Perché poi questo è il punto vero: se dobbiamo essere davvero sostenibili, e ormai sembra un diktat più che una scelta, come faremo a mantenere alta l’asticella della qualità assoluta e perfetta che l’alta cucina porta con sé fin dalla sua nascita?
Ma d’altro canto, di sicuro oggi nessuno può più dire «consuma quanto vuoi»: gli anni ’80 sono finiti, e anche se non hai a cuore il destino del mondo è opportuno tacere manie di spreco. Ma quanto essere sostenibili è solo un modo per essere gastronomicamente “indicizzabili”? La raccontiamo perché è ormai necessaria, pur sapendo che essere sostenibili davvero con l’alta cucina è quasi impossibile?
Per essere sostenibile, il lusso dovrebbe essere davvero inaccessibile, ma il lusso lo desideriamo tutti e per non sentirci in colpa lo vogliamo sostenibile. Ma se così fosse, tornerebbe ad essere un vero lusso, e solo pochi potrebbero utilizzarlo. A questo punto sì che il suo impatto sarebbe minore. Ma non lo sarebbe comunque, perché sarebbe il vertice di una piramide alla cui base ci sono comportamenti non sostenibili.
E se ci limitassimo a rendere sostenibile quello che è possibile, e non ci ostinassimo ad essere politicamente corretti sempre e comunque, anche solo di facciata, anche quando è impossibile e non necessario esserlo?
Abbiamo un solo motivo che ci fa propendere per la sostenibilità della cucina gastronomica, ed è l’esempio. Perché se è vero che gli chef famosi sono poi un modello da imitare, se proprio loro iniziano un lento percorso di minor peso sull’ambiente, forse queste scelte diventeranno comuni, e forse saranno normali anche per la cucina tradizionale, e per i clienti nelle loro case. Vale la pena provarci anche solo per questo, ma senza scordarci che l’alta cucina è davvero altro e non prevede come primo obiettivo quello di salvare il mondo. Finora.