Il pezzo di cartaPer i giovani l’unica speranza di avere uno stipendio alto è laurearsi

In questi anni è stato recuperato il grande taglio delle retribuzioni che si era verificato con la Grande Recessione, ma rimane ampia la differenza tra chi ha un titolo di studio e chi no. Studiare conviene, soprattutto se il termine di paragone è interno, ovvero gli altri lavoratori italiani

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Una notizia positiva, finalmente. Secondo i dati di AlmaLaurea crescono i salari medi dei laureati italiani, sia a un anno che a 5 anni dal conseguimento del titolo, che esso sia di primo o di secondo livello. Parliamo di ragazzi e ragazze tra i 22 e i 35 anni, la fascia di età più svantaggiata negli ultimi decenni di stagnazione e declino, che ha visto i propri redditi allontanarsi sempre di più da quelli degli anziani.

I laureati dopo la triennale hanno dichiarato di guadagnare mediamente 1.340 euro netti 12 mesi dopo la fine degli studi, una cifra che rappresenta un deciso aumento rispetto ai 1.041 del 2013, il minimo degli ultimi 15 anni. Per chi ha preso anche il titolo magistrale biennale il progresso è stato da 1.082 ai 1.355 euro del 2021.

In questi anni è stato recuperato quel grande taglio delle retribuzioni che si era verificato con la Grande Recessione, e che aveva visto proprio i giovani appena laureati esserne le principali vittime. Non avendo diritti acquisiti, avevano dovuto accettare stipendi di entrata sempre più bassi durante quella crisi.

Coloro che si sono laureati da 5 anni hanno vissuto meno fluttuazioni ma una crescita comunque significativa, dai 1.396 euro netti mensili del 2014 ai 1.554 del 2021 nel caso di chi si è fermato alla triennale e da 1.411 a 1.618 in quello di chi ha proseguito con il biennio.

Significa che in 7 anni c’è stato un incremento del 14,67%.

Non male, considerando l’andamento dell’economia in questo periodo. E soprattutto considerando che i guadagni medi netti di un lavoratore senza coniuge né figli a carico (come gran parte dei giovani) sono cresciuti della stessa misura, con un guizzo determinato negli ultimi anni dall’uscita dal mercato di molti tra i più fragili, i peggio pagati, a causa del Covid.

L’andamento delle entrate di una porzione significativa dei giovani, quelli che hanno terminato l’università, per una volta è simile a quella del resto della popolazione e non subisce gli effetti di quella disuguaglianza crescente tra le generazioni.

È un dato rilevante perché parliamo di redditi da lavoro, quelli che complessivamente secondo l’Istat negli ultimi 20 anni sono rimasti fermi e bassi rispetto alla media nel caso degli under 35.

In Italia l’unico modo per aumentare un po’ i guadagni è invecchiare, ma dimenticandosi di poter prendere qualcosa di più di chi aveva la stessa età 20 anni prima.

Le cose sono andate anche peggio considerando i redditi totali, non solo quelli da lavoro. Per i più giovani, e solo per loro, vi è stato un calo nel corso del tempo, che contrasta nettamente con la crescita dei redditi, da pensione o da rendita, degli over 65enni, e che sono passati per una famiglia con il principale percettore di questa età dai 14.142 del 2003 ai 22.450 del 2019.

Ma questo trend sembra non valere per i giovani se si laureano. Certo, c’è un divario tra il salario netto di chi ha studiato 5 anni in ambito letterario, che a un lustro dalla laurea hanno un salario netto inferiore ai 1.400 euro mensili, e quello di chi aveva scelto informatica o altri corsi in ambito ICT: questi ultimi prendono dopo lo stesso lasso di tempo 1.810 euro al mese.

Però pure tra i laureati in lettere e discipline simili il tasso di occupazione è molto alto, del 77,2%, non così lontano, dopo tutto, dal 90,9% degli informatici.

Non siamo davanti a una nicchia fortunata, chi termina gli studi universitari riesce contemporaneamente ad avere più opportunità di lavoro degli altri che maggiori salari, anche se non si tratta delle facoltà più ambite sul mercato, a dispetto di alcuni vecchi stereotipi.

A livello di tipologia di contratto vi è stato, sempre secondo AlmaLaurea, un altro miglioramento negli anni: è aumentata di più del 10%, dal 49,6% del 2014 al 60% del 2021, la quota dei laureati magistrali assunti a tempo indeterminato a 5 anni dal conseguimento del titolo.

È stata raggiunta, e superata di poco, la proporzione di contratti permanenti presente tra tutti i 25-34enni italiani, tra cui, però, la maggioranza non è laureata e ha quindi un’anzianità di carriera mediamente superiore ai 5 anni.

Siamo di fronte all’ennesima conferma del fatto che studiare conviene, soprattutto se il termine di paragone è interno, ovvero gli altri lavoratori italiani. Allora se mai sarà sgombrato il campo da quegli equivoci sul valore della laurea che trattengono tanti ragazzi dal proseguire gli studi, sarà il momento di affrontare gli altri fattori che fanno dell’Italia il Paese con meno giovani laureati dopo la Romania. Da quelli finanziari a quelli logistici, di alloggio, a quelli riguardanti l’offerta didattica.

Ovviamente vi è il pericolo che, se aumentasse la quantità di studenti universitari, gli stipendi di chi avesse alla fine ottenuto un titolo sarebbero meno distanti da quelli dei non laureati. Tuttavia è anche giusto pensare che crescerebbe, grazie a loro, la produttività delle imprese. Ed è quindi una scommessa da fare.

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