Giorgia Meloni ha ottenuto che il primo vertice elettorale del centrodestra si svolgesse in un luogo istituzionale, a Palazzo Montecitorio, perché non è più il tempo di minuetti, di incontri conviviali a Villa Grande sull’Appia o ad Arcore, tra i barboncini Dudù e menù tricolore. Un fatto simbolico che spiega quanto sia depotenziato il ruolo di Silvio Berlusconi. Forza Italia è diventata la ruota di scorta di una coalizione a trazione destra e rischia di essere cannibalizzata dall’esperimento politico di Carlo Calenda insieme ai fuoriusciti Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna.
Aver contribuito a dare il colpo di grazia al governo Draghi costerà caro al Cavaliere, che adesso teme di fare la fine del cappone dentro il forno nazionalsovranista. E allora si agita, manda avanti il monarchico Antonio Tajani, buon amico del leader dei Popolari Manfred Weber, fa sapere che il Partito popolare europeo, l’Europa e l’universo mondo è preoccupato che a Palazzo Chigi vada Giorgia, la «neofascista». Berlusconi, antesignano autentico del populismo italico, questa preoccupazione non l’ha mai avuta da quando sdoganò Gianfranco Fini in corsa per sindaco di Roma nel lontanissimo 1993. Ora invece fa le bizze, si agita, dice «il centro sono io», chi lo abbandona riposi in pace.
Gli va stretto l’abito di una vera destra che comanda in casa sua, che ha tifato Donald Trump (mentre lui l’ha sempre giudicato male), che guarda a Viktor Orbán cacciato dal Ppe, che è schizofrenica sul sostegno militare all Ucraina (Meloni con l’elmetto, Salvini pacifista).
Il Cavaliere prigioniero e schiacciato a destra sente il terreno franargli sotto i piedi. Non vorrebbe dare a Meloni lo scettro propagandistico della premiership prima del voto. Darebbe a Fratelli d’Italia un vantaggio in campagna elettorale, un’ulteriore forza propulsiva e anche Salvini è cosciente di poter finire nell’angolo dello sparring partner. Ma entrambi alla fine cedono alla regola che valeva per loro e non si capisce perché non dovrebbe valere per Meloni: il partito che prende più voti esprime il presidente del Consiglio.
Berlusconi aveva provato a far passare furbescamente un altro criterio ovvero che a decidere fosse l’assemblea dei parlamentari eletti. Così, sommando quelli di Forza Italia, della Lega e dei centristi la potrebbero segare. I classici conti senza l’oste. Ma anche su questa mossa il Cavaliere, e dietro di lui Salvini, è stato respinto con perdite. «Gli elettori di centrodestra non sono preoccupati che una giovane donna diventi premier. Semmai sono più preoccupati di votare candidati che dopo il voto fanno alleanze con gli avversari, come è successo con il primo governo Conte e con quello di Draghi», fanno osservare al quartier generale di Meloni.
Una stoccata che porta dritti dritti l’altro tema posto al vertice di Montecitorio: il patto anti-inciucio che Salvini e Berlusconi non hanno mai voluto sottoscrivere. Ma questi problemi e tutti quelli che il centrodestra dovrà risolvere saranno la polvere da mettere sotto il tappeto dell’ipocrisia. Metteranno in fila le cose che li unisce e troveranno un modo per camuffare le divergenze sui programmi e di divergenze ce ne sono tante. Soprattutto sul piano economico, la flat tax, la politica estera, lo scostamento di bilancio, la prevalenza della norma italiana rispetto a quella europea in chiave nazionale.
Guido Crosetto afferma di avere l’impressione che «qualcuno non abbia capito bene quali saranno le necessità e i problemi dei prossimi mesi: se pensano di affrontarli come nel 2000 siamo condannati al fallimento del Paese».
I problemi sono tali che in autunno potrebbe arrivare una recessione e fare la legge di bilancio per i vincitori sarà un’impresa da far tremare le vene ai polsi, una scelta che verrà guardata con grande preoccupazione da Bruxelles e le Cancellerie. La vera paura continentale non è la «neofascista» a Palazzo Chigi, ma che il futuro governo non controlli il debito pubblico, facendo venir meno lo scudo antispread a protezione dei nostri titoli di Stato sollevato dalla Banca centrale europea. Tenere in ordine i conti, non eccedere in deficit e debito pubblico è la cosa che conta.
Comunque il primo patto è sulla divisione dei collegi. Meloni ne voleva la metà, ma sembra disponibile a limitare le sue prese e si accontenterebbe del 40-45% lasciando a Salvini e a Berlusconi il resto, che dovrebbe contenere anche le candidature dei centristi di Maurizio Lupi e Lorenzo Cesa.
Alla fine Meloni ne ottiene tantissimi, poco meno del 50 per cento: su 221 collegi uninominali, Fratelli d’Italia prende 98 seggi, la Lega 70, Forza Italia 42, Noi con l’Italia e Coraggio Italia 11.
«Clima ottimo», fanno sapere dal vertice. Vedremo quando passeranno ai temi pesanti, ma statene certi: rimette tutto a posto la prospettiva del potere forte, di avere una maggioranza assoluta, conquistare perfino i due terzi dei seggi parlamentari e poter cambiare la Costituzione senza essere costretti a una conferma referendaria. Come invece fu costretto Matteo Renzi e gli costò il governo. Una possibilità che dovrebbe far riflettere molto coloro che pensano di scendere in campo (largo, aperto, famolo strano, direbbe Carlo Verdone) in ordine sparso e gli scarpini bucati.