Come qualcuno ricorderà, quando cadde il Governo Conte-bis Goffredo Bettini evocò un golpe realizzato «per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile».
Visto che gli intellettuali progressisti doc, in genere, pensano che gettare il sasso e ritirare la mano sia una prova di commendevole moderazione politica e intellettuale e hanno un senso della responsabilità a misura della loro ipocrisia, Bettini non concluse, come avrebbe dovuto, paragonando Giuseppe Conte a Salvador Allende e Mario Draghi ad Augusto Pinochet, ma sostenne al contrario che «nel vuoto e nell’incertezza» che si era «determinata, il presidente Mattarella ha saputo mettere a disposizione della Repubblica Mario Draghi. Una grande personalità. Una risposta di emergenza a una situazione di emergenza».
Proviamo a usare per gioco – sia chiaro: solo per gioco – con maggiore rigore e radicalità lo schema di Bettini nell’interpretare premesse, conseguenze e beneficiari della crisi aperta dall’ex fortissimo riferimento del mondo progressista. Proviamo – sia chiaro: solo per gioco – a tirare il sasso e a non ritirare la mano.
La scaturigine di questa crisi è in uno scandalo autoprodotto nel côté contiano. L’intervista confezionata da Il Fatto a Domenico De Masi circa la richiesta di Draghi a Grillo di fare fuori l’ex capo del Governo dalla guida dei 5 Stelle, che sarebbe stata confermata da alcuni fantomatici messaggi scritti, di cui però nessuno ha confermato l’esistenza, ha rappresentato una bufala giornalistica totale, ma una mossa politica rilevante, perché ha permesso di eccitare l’incazzatura di tutti i pentastellati che si sentivano traditi dal fedifrago Luigi Di Maio.
Come insegnano i maestri della dissonanza cognitiva di scuola moscovita, perché qualcuno faccia quello che tu vuoi, devi fare in modo che sia lui a volerlo. E per incamminare il tumulto di parlamentari impazziti e in scadenza verso un esito compiutamente nichilista, bastava fare percepire e desiderare loro la defenestrazione di Draghi come un supremo atto di giustizia e un risarcimento dell’affronto subito.
Così mentre Grillo, che era sceso a Roma a scaricare Di Maio e a blindare il Governo («non si fa una crisi su un cazzo di inceneritore»), se ne tornava a casa malmostoso e sfiduciato, Alessandro Di Battista se ne partiva per la Russia, a fare straordinari reportage su Il Fatto, che raccontano di quanto i russi siano orgogliosi di Putin, i ristoranti siano pieni e le sanzioni non facciano un baffo al valoroso popolo in arme contro l’aggressione della Nato.
Intanto Conte incontrava accigliato Draghi chiedendo rispetto – il massimo valore politico, nell’era della suscettibilità universale – e consegnava all’usurpatore di Palazzo Chigi papelli di richieste urgenti, ma differibili, per allungare il brodo del negoziato e il logoramento dell’esecutivo.
Infine Conte decideva di togliere la fiducia a Draghi proprio sul «cazzo di inceneritore» su cui Grillo aveva detto: transeat, per poi esibirsi in una eccezionale supercazzola dorotea, in cui spiegava che non intendeva così uscire dalla maggioranza, ma non intendeva neppure rimanervi a queste condizioni, dando modo all’altro grande interprete del putinismo pacifista tricolore, Salvini, di dichiarare che il Governo era finito e la legislatura era chiusa. Posizione su cui sembra finalmente ricompattarsi, dopo un lustro, l’intero centro-destra, storicamente unito anche da simpatie e frequentazioni putiniane.
Ora che Draghi ha rassegnato le dimissioni, se tutto va come deve andare, Putin si sarà finalmente tolto dai piedi il suo avversario europeo più deciso, capace anche di trascinare i ben più malleabili Scholz e Macron a un intransigente allineamento atlantista. Col che non si vuole certo dire – ci mancherebbe – che in Italia sia in corso un’operazione politica speciale della Russia. Si vuole solo ironicamente illuminare un insieme casuale di coincidenze, dietro a cui qualche malpensante potrebbe intravedere perfino un disegno.