C’è da stupirsi che qualcuno si stupisca per come è caduto il governo Draghi. Cinquestelle, Lega e berlusconiani non hanno fatto nulla di imprevedibile, nulla che fosse in discontinuità con la loro natura o con le scelte del loro passato. Nessun passaggio delicato della storia repubblicana recente li aveva mai visti su posizioni responsabili.
Dieci anni fa, col governo Monti, la Lega restò all’opposizione per lucrare voti sulla crisi economica, i berlusconiani si sfilarono per opportunismo elettorale a pochi mesi dalla fine della legislatura, e i Cinquestelle costruirono il loro primo enorme successo tuonando contro i «politici tutti ladri» e «l’Europa delle banche».
Sei anni fa, col referendum costituzionale, la Lega restò all’opposizione per lucrare voti sull’antirenzismo, i berlusconiani si sfilarono per opportunismo elettorale sostenendo il No alle urne dopo aver sostenuto il Sì in Parlamento, e i Cinquestelle costruirono il loro secondo ancor più enorme successo tuonando contro «la riforma di JP Morgan».
Sei mesi fa, con l’elezione del presidente della Repubblica, la Lega si mise a bruciare uno dopo l’altro candidati improbabili, Berlusconi insistette su una candidatura personale ancora più improbabile, e i Cinquestelle cercarono di portare al Quirinale una poco conosciuta diplomatica a capo dei servizi segreti. L’inevitabile risultato fu la distruzione di qualsiasi candidatura autorevole e il frettoloso dietrofront di Mattarella come ultima opzione percorribile.
Perché mai col governo Draghi avrebbe dovuto essere diverso?
Una volta chiusa (per un po’) la partita contro il Covid, nella quale il prestigio di Draghi e le capacità tecniche dei draghiani facevano oggettivamente comodo a tutti, perché mai quei tre partiti avrebbero dovuto mostrare per un altro anno una responsabilità che gli èsempre stata estranea?
La grande allucinazione di massa per cui ci si aspettava che Giancarlo Giorgetti, Licia Ronzulli, Luca Zaia e Fabiana Dadone avrebbero avuto un sussulto di dignità e spaccato i loro partiti per salvare il governo era, appunto, solo un’allucinazione. E ancora più allucinata era l’allucinazione per cui ci si aspettava che gli stessi Salvini e Berlusconi avrebbero anteposto non meglio precisati interessi del loro elettorato, degli imprenditori del Nord o addirittura del paese alla propria antipatia per le riforme draghiane o al puro calcolo elettorale.
La più allucinata delle allucinazioni era forse quella che riguardava Conte: per quale strana ragione un leader al quale è rimasto solo un bacino elettorale di fanatici convinti che l’Ucraina sia una guerra per procura e che quello di Draghi sia il governo dei banchieri contro il popolo non avrebbe dovuto staccare la spina? Anche il trasformismo ha un limite. Ma perché questa allucinazione è stata così diffusa e così dura a morire?
La spiegazione è semplice: perché il Partito democratico, i centristi e gli altri responsabili si sono assuefatti all’idea che non sia possibile battere in campo aperto alle elezioni tutti gli irresponsabili contemporaneamente. L’unica via era addomesticare almeno una parte degli irresponsabili per portarli dall’altro lato della barricata in cambio di qualche concessione.
Le formule più ingegnose, da quelle elettorali come il campo largo a quelle squisitamente parlamentari come la maggioranza Ursula, sono state ideate per questo scopo.
È vero, nelle correnti di sinistra del PD c’è una fascinazione autentica per i Cinquestelle, ritenuti «l’unico vero movimento popolare nato in Italia» (cit. Massimo D’Alema), e per Conte, ritenuto «l’uomo più popolare in Italia» (cit. sempre D’Alema), che in diretta Facebook rinchiudeva in casa gli untori e distribuiva soldi pubblici ai poveri. Ma alla fine sono le scelte che definiscono l’identità di un partito, e il Pd nel suo complesso ha sempre scelto la conservazione dell’ordine a prescindere – non a caso è stato al governo per 9 degli ultimi 10 anni anche senza aver mai vinto le elezioni.
È ragionevole pensare, perciò, che l’addomesticamento dei grillini fosse stato intrapreso più per mancanza di alternative che per vera affinità di vedute.
Eppure, c’era stata una breve stagione in cui si riusciva a sbaragliare insieme tutta la destra e tutti i grillini, invece di passarli al setaccio in cerca di responsabili e moderati: la stagione del Pd renziano tra 2014 e 2015 (Europee e Regionali).
Quale allineamento astrale aveva permesso quelle vittorie? È possibile oggi riprodurlo e fare in modo che non sia altrettanto effimero? A mio parere sì.
Per prima cosa occorre creare subito una solida lista unitaria di centro, che prosegua lo sforzo riformatore di Draghi e risponda alla domanda di un ambientalismo serio (fortissima soprattutto tra gli under 40). Questo soggetto nuovo farebbe da polo di attrazione magnetica per il PD, che è in perenne crisi d’identità e alla continua ricerca di ispirazione dall’esterno. Con la giusta narrazione e i giusti candidati esposti sui media, non sarebbe difficile intercettare i molti elettori di Forza Italia e della Lega delusi dal draghicidio del 20 luglio.
Non sarebbe neanche così difficile, se si usa il giusto linguaggio e si rinnega ogni estremismo, rendere attraenti agli occhi di un elettorato più ampio alcune misure sociali storicamente confinate alla sinistra, come lo Ius Scholae, la settimana lavorativa corta, il congedo di paternità obbligatorio o la liberalizzazione della cannabis.
Resta il problema del leader mediatico dell’eventuale coalizione. Ma non è escluso che la formula di una leadership condivisa possa incontrare le simpatie dell’elettorato, ormai esausto e disgustato da qualsiasi riferimento alla politica così come è stata negli ultimi anni.
I margini sono stretti, ma ci sono. Chissà se c’è anche la volontà.