Proviamo a guardare un po’ più in là dell’esito di questa crisi di governo, che, come tutte le cose che in Italia si politicizzano, istiga purtroppo al disgusto, non all’amore della politica e all’idea che in essa non ci sia alternativa, per così dire, al fare torto alla verità o al patirlo.
Purtroppo la pagina ingloriosa di auto-degradazione del Parlamento a fiera di imbonitori, bari e mangiafuoco, a cui abbiamo assistito ieri, ha confermato un guasto della macchina democratica italiana, che anche questo esecutivo di unità ed emergenza nazionale, come tutti i precedenti, non ha riparato, ma solo provvisoriamente rimediato nelle sue conseguenze peggiori.
Se i governi tecnici e le varie formule istituzionali sperimentate nelle fasi di emergenza stanno al sistema democratico come la circolazione extracorporea, negli interventi a cuore aperto, sta al sistema cardio-vascolare, è evidente che essi dovrebbero offrire tempo e modo per aggiustare il cuore infartato della politica, cioè le istituzioni e i partiti, per tornare a farli funzionare, ma non possono troppo a lungo surrogarne la funzione, né pensare di sostituirsi a essi.
Questo spiega perché – come ha rimarcato ieri Draghi in un passaggio molto esplicito del suo intervento è ovvio ritenere che «un presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile».
Sempre per stare alla metafora, queste operazioni politicamente a rischio implicano il consenso informato dei pazienti e la loro collaborazione, non solo per potersi considerare legittime, ma soprattutto per potere essere efficaci. Consenso e collaborazione che può venire meno in ogni momento.
La politica italiana è democraticamente libera di suicidarsi e di tornare rapidamente al teatro delle illusioni e degli inganni. E ieri ha dimostrato per l’ennesima volta di esserlo, smentendo le accuse ridicole di commissariamento e condizionamento da parte di fantomatici poteri forti nazionali e internazionali.
Si potrà discutere a lungo se proprio il sistematico ricorso nelle fasi di emergenza a governi tecnici abbia alla fine deresponsabilizzato il sistema politico, inaugurando una paradossale alternanza non tra partiti e coalizioni diverse, ma tra la politica dei desideri e l’extrapolitica delle necessità, tra la democrazia dei bambini e la tecnocrazia degli adulti, tra i troppi sì, che aiutano a vincere le elezioni e gli altrettanti no, che dovrebbero aiutare a crescere un elettorato alienato tra sogni di onnipotenza e senso di frustrazione.
Rimane il fatto che, dal 1992 a oggi, i governi tecnico-istituzionali sono entrati in gioco quando i partiti si erano letteralmente dati alla fuga dal campo o dalle responsabilità dell’emergenza e il default del sistema democratico si era manifestato in modo rovinoso. Rimane soprattutto il fatto che la malattia della democrazia italiana, cioè la sua incapacità di accompagnare l’Italia fuori da una spirale di declino economico, disgregazione sociale e imbarbarimento civile, non può essere guarita nel lavacro delle urne, se anche la competizione elettorale è un’espressione di questa malattia democratica, una manifestazione di questa sindrome politica autoimmune.
A dimostrare quanto poco basti mettere un Mario Draghi a dire e a provare a fare le cose giuste, perché questo diventi un esempio politicamente rilevante, non c’è stato solo il modo indegno in cui gli amichetti di Vladimir Putin, Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Silvio Berlusconi l’hanno ieri liquidato, ma anche il fatto che in diciotto mesi di governo i sondaggi hanno continuato a registrare una sorta di dissociazione psichica degli italiani, che mentre riconoscevano al presidente del Consiglio il massimo del credito e della popolarità, non mutavano se non per qualche zero virgola i rapporti di forza tra le forze in senso lato draghiane e i partiti dell’Italia bi-populista.
Quel che è certo è che se la prossima campagna elettorale si incamminerà lungo la strada segnata – che è stata, lo ricordi bene il Partito democratico, anche la strada che ha portato a questa crisi di governo – ci sono ben poche ragioni per confidare nel risanamento del corpo e dell’anima della nostra democrazia e nella riabilitazione di una politica ridotta a mercato di miraggi e imposture.
Un bel frontismo anti-meloniano, perché «se no vincono le destre», con dentro tutto e tutti, da Dibba a Mastella, purché disponibili (e disponibili, in primo luogo, perché disperati), sarebbe la cosa più stupida e infantile che potrebbero fare i sedicenti adulti nella stanza delle istituzioni. Anche dopo quel che è successo ieri, non è escluso che questa opzione sia uscita del tutto dai tavoli e dalle teste del fronte progressista.