Viaggio nel tempoReportage impossibile in celebrazione dei 150 anni del teatro Manzoni di Milano

Il racconto immaginifico di uno dei più amati teatri meneghini visto attraverso gli occhi di chi lo ha abitato mentre nasceva, compianto nella morte e assistito nella riapertura dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Un luogo che ancora oggi, dopo così tanti anni, conserva intatto il suo personalissimo fascino d’altri tempi

Courtesy of Teatro Manzoni

Ogni volta che mi capita di passeggiare per via Manzoni, attraversando gli archi medievali di Porta Nuova percepisco un’atmosfera da antichi fasti, il sapore di una Milano che non esiste più. A questa altezza della via si trova la Galleria Manzoni. Un capolavoro dell’architetto Alziro Bergonzo costruito sulle macerie di un palazzo distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. È un passaggio pedonale pieno di opere d’arte e piccoli dettagli che rappresentano bene quella che fu l’epoca d’oro dell’architettura milanese, il dopoguerra e la voglia di grandeur della ricostruzione.

All’interno del complesso si nota immediatamente una cura minuziosa per i dettagli, a tratti barocca. L’ingresso della galleria è decorata da un pilastro in bronzo scolpito da Gino Oliva e sul soffitto si nota un bel tondo in altorilievo. La pavimentazione in marmi policromi conduce poi, come su un tappeto, verso l’accesso al teatro Manzoni.

Davanti l’entrata dell’edificio è posta una gigantesca statua di bronzo raffigurante il dio Apollo, opera dello scultore Leone Lodi, mentre sulla parete di fondo fa mostra di sé un dipinto di Ghino Baragatti. Quattro colonne corinzie segnano l’ingresso alla sala sottostante. Nel foyer, agghindato con tende rosse, sono presenti splendidi cicli pittorici di Achille Funi a tema bucolico, che lasciano a bocca aperta gli spettatori che si accingono a varcare la soglia. 

La sala è lussuosa, illuminata dagli originali lampadari anni cinquanta e le poltroncine di velluto rosso ispirano agiatezza e comodità. Come disse il critico Sabatino Lopez il Manzoni è «non troppo grande, non troppo piccolo, elegante, vivace, signorile. Quanto c’è di più milanese a Milano».

A volte poi, se sarete fortunati, in una nicchia leggermente nascosta potrete scorgere un omino vecchio e con lunghi baffi ottocenteschi. Sta seduto su di una seggiola in legno mentre legge il giornale dietro al bancone del guardaroba. Si fa chiamare Lloyd ma pare ovvio che sia uno pseudonimo preso in prestito da qualche film americano. Interrogatelo su chi sia, non vi risponderà, ma chiedetegli del teatro e della sua storia e subito si animerà perché ha molte storie da raccontare. Quanto segue è quello che ha detto a me.

Credits: Teatro Manzoni

«La prima cosa da dirle è che questi centocinquant’anni sono una celebrazione in senso lato, perché non si può parlare di un solo teatro, ma di centocinquant’anni della prosa delle compagnie professionistiche a Milano. In questo senso la cosa funziona altrimenti c’è sotto un grosso equivoco.

Mi spiego meglio. I teatri Manzoni sono due, pure estremamente diversi, collocati topograficamente in due luoghi diversi e discontinui per cronologia. 

Un teatro Manzoni in senso proprio non c’è più. C’è stato un primo teatro che si trovava in Piazza San Fedele, vicino alla Scala, e fu fondato nel 1872 con un altro nome, ma dopo un anno dall’inaugurazione lo hanno intitolato ad Alessandro Manzoni che era morto qualche mese prima. Io c’ero già, a quel tempo avevo poco più di vent’anni e posso assicurarle che Alessandro ne sarebbe stato davvero onorato.

Purtroppo quell’edificio finì malissimo, lo annientarono nell’agosto del 43 i bombardamenti del centro di Milano, che rasero al suolo l’intera piazza. Fu un colpo al cuore, anche perché non facemmo in tempo a salvare nulla. L’archivio andò distrutto e il mio gatto rimase intrappolato dentro.

Poi a partire dal 1950 venne costruito un secondo teatro che sta sull’area di via Manzoni 40, quello che adesso si chiama appunto teatro Manzoni, ma che all’epoca si chiamava teatro di Via Manzoni. Poi con gli anni il pubblico prima, la critica poi cominciò a confondere i due nomi e io a voglia a farglielo notare, ma nessuno mi ascolta mai.  

Il primo Manzoni venne costruito da una società di intellettuali milanesi e da una serie di impresari legati a quel mondo negli anni 70 dell’Ottocento con il nome di Teatro della Commedia, cosa che già indicava la destinazione dell’edificio: quella di un grande teatro di prosa a Milano, dato che il più grande teatro ottocentesco esistente prima in città era stato abbattuto proprio qualche anno prima per lasciare spazio alla galleria Vittorio Emanuele. La situazione negli anni 70 dell’Ottocento era che Milano, grande centro teatrale per quanto riguardava l’opera lirica, non aveva però una sala dedicata alla produzione drammatica. 

Quante persone e quante emozioni mi hanno regalato entrambe le sale, tante che per poco non scoppio in lacrime. Nel corso degli anni sopra quei due palcoscenici ci lavorarono un po’ tutti i grandi virtuosi del tempo. Calcarono la ribalta attori del calibro di Ruggero Ruggeri, Emma Gramatica, la compagnia di Virgilio Talli e perfino Eleonora Duse, la musa di D’annunzio che aveva la puzza sotto il naso. Fino ad arrivare ai più recenti maestri come Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo, Mariangela Melato e Giorgio Albertazzi, che si esibirono nel nuovo Manzoni per un pubblico in visibilio. Davvero il teatro è la mia casa, la mia vita. 

Credits: Teatro Manzoni

Ma arriviamo al momento che più ho preferito di tutta la storia del vecchio teatro, ovvero “a quella meteora di eletta arte” (come disse un critico dell’epoca) che furono i due trienni diretti da Mario Praga, il più grande autore e impresario di sempre, a parer mio. Con la Compagnia Italiana del Teatro Manzoni tra il 12 e il 17 del novecento rivoluzionò la storia di questa arte. 

Caspiterina, furono anni incredibili quelli, anni in cui il teatro diventò una sorta di vetrina privilegiata della drammaturgia italiana, ma anche a livello europeo; cosa che fa sì che ancora oggi quell’ edificio e quella programmazione risulti di grande interesse per gli studiosi d’arte teatrale. Se non sbaglio una docente della Statale ci ha scritto un libro di recente. 

Praga fu il primo a promuovere un modello di teatro stabile che in Italia ancora non esisteva, un teatro di grande impegno culturale fatto di autori ancora prima che di attori, i quali si ritrovavano spessissimo al leggendario caffè Manzoni.

Ah che belli i tempi che furono! Il caffè Manzoni era attiguo all’edificio principale, ma era collegato da un passaggio interno. Per intenderci, si trovava di fianco al Savini, il ristorante di lusso ancora esistente. Permetteva l’ingresso alla galleria al pubblico degli avventori, ma era aperto a qualsiasi personaggio.

Il caffè aveva diverse sale, all’interno di queste si riunivano gli uomini e le donne che ruotavano intorno al Manzoni, non solo per consumare, ma anche per confrontarsi, leggere i giornali e parlare. Pensi che Cavallotti, uno dei più assidui frequentatori del caffè, lo amava così tanto che compose un dramma interamente ambientato lì dentro: è un testo meta teatrale che ormai è totalmente dimenticato, ma che all’epoca aveva avuto una sua rilevanza. E poi, come dimenticare il dopocena offerto da Giuseppe Giacosa, il librettista di Puccini, dopo la prima di Come le foglie nel 1900. Come si bevve quel giorno, non si bevve mai più.

Ad ogni modo fu un luogo importante, all’interno del quale si sviluppavano discussioni e cenacoli che hanno fatto la storia del teatro in Italia, e soprattutto si elaboravano teorie e recensioni, perché autori e attori lavoravano in stretta corrispondenza con i critici, di cui io potrei anche fare i nomi, ma dato che adesso sono quasi totalmente sconosciuti lei non li conoscerà e perciò eviterò di farlo. Qualcosa che oggi non si vede più!

Dopo la ricostruzione molte cose sono cambiate, il panorama teatrale in Italia era già completamente diverso negli anni ’50. Il secondo Manzoni, quello che abbiamo ancora oggi, è un teatro che nasce come alternativa privata al Piccolo Teatro. Pensato per avere una compagnia semistabile, piano piano divenne un teatro impresariale basato sull’attività delle compagnie private. Una cosa onorevole considerato il livello qualitativo che manteniamo. Ha idea di quanto sia difficile gestire un teatro nel mercato di oggi senza percepire fondi pubblici?

Per cui il merito del secondo Manzoni è stato quello di aver rappresentato nella Milano del dopoguerra fino a oggi, la voce del circuito culturale delle sale private. Ora non facciamo più solo prosa: se lei va a vedere i cartelloni degli spettacoli vedrà ancora i grandi classici ma affiancati da cabaret e intrattenimento: spettacoli molto ben fatti, molto ben recitati. Ça va sans dire, sono un po’ di parte, ma non lo dico solo io. 

Ma ora basta: ho parlato fin troppo. Adesso torni a casa che si è fatto tardi e il teatro sta per chiudere. Ma non si preoccupi, domani riapriremo, e di nuovo dopodomani, e poi ancora e ancora e ancora. Spero almeno per altri 150 anni».

Un dovuto ringraziamento va alla professoressa Marigabriella Cambriaghi, docente di Discipline dello spettacolo presso l’Università degli studi di Milano che, fornendomi le sua profonda e appassionata conoscenza sulla storia del Manzoni, ha reso possibile questo articolo dando voce a Lloyd, il guardarobiero pluricentenario. Il narratore della reale storia del teatro ma che, ovviamente, è frutto dalla mia più spassionata immaginazione.

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