La prima puntata del diario di viaggio nel sud est asiatico
La seconda puntata del diario di viaggio nel sud est asiatico
Quella vietnamita è un’identità costruita sulla memoria della violenza e della guerra. Lo testimonia il fatto che quasi ogni monumento nazionale e ogni statua è in qualche modo legata all’ambito militare o della guerra. Gli unici luoghi davvero curati, maniacalmente, sono quelli del potere: le incarnazioni delle istituzioni devono essere pulite, limpide, nella piazza del municipio dove svetta, tra piastrelle ordinate e aiuole verdi, la statua di Ho Chi Minh, l’eroe patriarca che dichiarò l’indipendenza dal regime coloniale francese nel 1945 e che guidò il Vietnam del Nord alla riconquista di Saigon, che prese poi il suo nome.
Facendo duecento metri, in qualunque direzione da un luogo di rilievo istituzionale, i marciapiedi si spezzano, la natura esonda dalle strade, dai palazzi, in fogliame e liane, radici che si aggrovigliano attorno a muri inceneriti, scrostati e perlopiù fatiscenti. Il Vietnam è un Paese che ha vissuto una guerra lunga ben oltre vent’anni anni di quella chiamata “del Vietnam” (1955-1975). È dal finire della Seconda guerra mondiale che i vietnamiti hanno cominciato a combattere contro gli occidentali: prima contro il regime coloniale francese, in una lotta tra nord e sud del Paese, ma finanziata largamente dagli Stati Uniti che avevano tutto l’interesse nel mantenere rapporti con un paese colonizzato. E poi direttamente, per dieci interminabili anni, si sono spesi in una guerra diretta con la prima potenza al mondo che non si è per nulla risparmiata nel conflitto.
Ha inviato milioni di uomini al fronte, riversato decine di milioni di litri di “agente arancio”, una dioxina dagli effetti catastrofici, anche a lungo termine, responsabile di generazioni nate malformi, amputate, cieche. Hanno infuocato le foreste spargendo fiamme dal cielo come si semina un fertilizzante sui campi. Il museo della memoria della guerra è forse l’esempio più controverso e tipico di un’istituzione volta a una creazione identitaria. Testimonia in maniera chiara il punto di vista vietnamita su un conflitto che siamo stati abituati a immaginare soltanto attraverso i film americani.
Entrando al museo si incontrano immediatamente, esposti all’esterno, cinque carri armati, un Chinook per trasporto truppe, due caccia, un aereo bombardiere, un aereo da ricognizione e un elicottero, tutti targati U.S. Air Force. Mezzi di artiglieria, bulldozer. Al museo non c’è quasi nulla di vietnamita: le bombe, l’artiglieria, i fucili e le maschere antigas: quasi tutto qui è americano. Di vietnamita c’è solo la sofferenza, come se i vietcong non avessero mai combattuto nelle foreste, immersi fino al naso nella melma dei fiumi, come i film americani ce li dipingono.
Attraverso il museo della memoria della guerra, il Vietnam avrebbe potuto raccontarsi come un popolo forte, vittorioso sul potente invasore. Sceglie invece un’altra narrazione, quella della violenza subita rimuovendo del tutto quella che invece hanno praticato. Attraverso la riproduzione delle celle in cui i vietnamiti venivano richiusi, le ghigliottine, le macchine di tortura, le “Tiger Cage” (gabbie di ferro arrugginito e filo spinato, più piccole di una bara, dove i vietnamiti venivano rinchiusi per giorni o fino alla morte) i bambini (e sono molti, in visita coi genitori) imparano a pensarsi come un popolo martirizzato.
Il racconto della violenza subita, testimoniato da fotografie raccapriccianti e da elenchi sterminati delle torture ricevute, vuole da un lato svelare la brutalità americana, ma dall’altro intende riscattare l’immagine del popolo aggressore. Sopra alla nota fotografia di Kim Phúc, la bambina nuda che corre in strada, ustionata dal napalm, è affissa una targa su cui si celebrano tutti i premi internazionali, molti dei quali americani, tra cui il Pulitzer, con cui il fotografo Nick Út, grazie a quello scatto, è stato insignito.
Allo stesso modo, nell’ultima delle stanze, dopo aver attraversato intere sale di fotografie che immortalano bambini deformati dalle violenze genetiche dell’agente arancio, sono affisse, come fossero eroi, le fotografie di decine tra giornalisti e attivisti americani che sono stati arrestati per aver gridato alla pace negli anni della guerra. A poche centinaia di metri dal museo, fuori dal Palazzo dell’Indipendenza, è affisso uno striscione che annuncia i festeggiamenti per il 27esimo anniversario della riapertura delle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti, avvenuta nel 1995.
Chi vince la guerra ha il diritto di raccontarla, a se stesso e agli altri, di scrivere la storia. Ma è inquietante pensare che proprio mentre io e Paolo – all’inizio del mese di agosto – vaghiamo tra i relitti e le riproduzioni di un conflitto concluso, due portaerei americane, a pochi chilometri dalle coste vietnamite, stanno solcando le onde del mar Cinese Meridionale insieme alla loro flotta d’assalto, accompagnati da due sottomarini nucleari, in una danza atomica con le portaerei cinesi che, poco più a nord, sfilano in quelle che sono state definite le più imponenti esercitazioni militari mai messe in pratica dalla Cina (che includono lanci dal vivo di colpi di artiglieria e di missili in sei aree marittime off-limits a navigazione e sorvolo), in un braccio di ferro che si gioca nelle acque del Pacifico.
I ministri degli esteri dell’Aesan, di cui fa parte anche il Vietnam, si sono detti molto preoccupati dalla prospettiva di finire coinvolti, più o meno indirettamente, in una prova di forza che «potrebbe destabilizzare la regione e alla fine potrebbe portare a errori di calcolo e quindi a conseguenze imprevedibili tra le principali potenze». Il Vietnam ricorda, e assiste inquietato.