La prima puntata del diario di viaggio nel sud est asiatico
Paolo, in Italia, è un importante manager di artisti di fama almeno nazionale e vive la città a modo suo. Di tanto in tanto lo vedi camminare, con sguardo sperduto, muovendo la testa di qua e di là alla ricerca di qualcosa. Se impari a conoscerlo, scopri che quando si comporta così ha individuato una musica lontana, che tu non sei ancora in grado di sentire, e così cerca di localizzarla. «Il suono è bastardo – dice – pensi che venga da una parte, e invece viene da quella opposta. Sta solo rimbalzando contro il palazzo che hai di fronte».
Da un punto di vista musicale, Ho Chi Minh gli è sembrata una città deludente. Le sonorità che si ascoltano fuori dai ristorantini, lungo le strade o nei locali sono perlopiù di carattere occidentale. Si sente Rihanna, Avicii, persino Laura Pausini che, nei pressi di un chioschetto, canta “A modo mio”. «Andiamo di qua», dice Paolo a un certo punto, fiutando delle note.
Lo seguo voltando un paio di angoli fino ad arrivare nel grande viale centrale. Dalla parte opposta alla statua di Ho Chi Minh è stato allestito un grande palco sotto al quale è radunata una piccola folla di centinaia di persone. Lì sopra, in abiti tradizionali, con il nón lá, il classico cappello di paglia in testa, si esibiscono una cinquantina di bambine che ballano e cantano in lingua vietnamita. Tutt’attorno si trovano cartelli e striscioni con delle scritte e il numero 75, stampato in grande, in rosso, sotto il simbolo della falce e del martello. Informandoci, scopriamo che si tratta delle celebrazioni per il settantacinquesimo anniversario della giornata dei martiri.
Le bambine, sventolando i cappelli, scambiandosi di posto, danzando e roteando su loro stesse intonano dei canti che prima attraggono l’attenzione di Paolo ma che presto lo lasciano deluso. «Le parole sono vietnamite ma le melodie e il ritorno degli accordi è del tutto standard». A prestare attenzione, se di quei canti rimanesse solo la musica, sembrerebbero canzoni natalizie o di buon compleanno.
Nel tempo in cui siamo stati a Ho Chi Minh non siamo riusciti a trovare una sola band locale che si esibiva, ma in compenso eravamo tormentati, in Hotel, da una musica da discoteca che continuava a suonare fin oltre le 3 di notte e non riuscivamo a comprendere da dove venisse tanto rimbalzava tra le mura dei palazzi. «Usciamo, o non chiuderemo occhio», sentenzia Paolo.
Una passeggiata di quasi trenta minuti sotto un monsone notturno ci consegna fradici al quartiere della vita notturna. La via si srotola in una gola di luci appariscenti, sotto la scritta “Bui Vien walking street”. I neon sgargianti indicano la strada a chiunque abbia desiderio di perdizione. Le insegne, gli odori fastidiosi dell’asfalto bagnato, misti a quelli della sporcizia, dipingono un paesaggio sonoro caotico: sfilando tra gli oltre 30 locali che si affacciano gli uni sugli altri, si viene colpiti dal fuoco di musiche riprodotte a volumi osceni.
Attraversati da laser rossi e verdi che sembrano puntarti come mirini, le sonorità si accavallano le une sulle altre originando solo un baccano bacchico che porta Paolo a tapparsi le orecchie, infastidito. «Se tappi solo metà delle orecchie, riesci a distinguere una canzone dall’altra, prova». Obbedisco e così mi rendo conto che da destra il Crazy Night mi sta mitragliando con David Guetta mentre da sinistra il Miss Saigon mi bombarda con altra musica pop, che però non conosco.
Allineate lungo le vetrine dei locali, ballano una ventina di ragazze su bidoni neri e di metallo. Mentre ci aggiorniamo con fare spaesato un uomo dall’aspetto butterato, tappandosi una narice con il dito indice, ci domanda se siamo in cerca di cocaina o marijuana per le quali, da queste parti, si finisce in carcere se non in paradiso, o all’inferno. Decliniamo con gentilezza e, invitati da buttadentro insistenti, ci fermiamo all’86 Pho Thai dove un cocktail costa come a Milano, dagli 8 euro in su. Ci fanno accomodare davanti al palco interno, dove due ragazze in bikini dorato ballano e cantano, scatenando il pubblico, sotto la console di una dj che suona quella che Paolo definisce «musica elettronica Vietnamita che sembra uscita dagli Anni ‘80».
Ordiniamo un margarita e rimaniamo ammirati nello studiare come un turista, a spettacolo finito, invita le due ballerine al tavolo e conversa con loro oltre ogni barriera linguistica, con il traduttore di Google. Lui e le due ragazze si mostrano le frasi a vicenda, sullo schermo del cellulare. Ridono, lui sventola un ventaglio verde e a un certo punto sussurra qualcosa nell’orecchio di una delle ragazze. Lei ride e sfregandosi l’indice col pollice gli fa il segno dei soldi.
Torniamo in strada. Più l’ora avanza, più i locali esondano. Uno a uno aggiungono tavoli e sedie, dai marciapiedi conquistano le strade per fare posto ai nuovi arrivati che affollano la via. A un certo punto, da una stradina laterale e quasi invisibile, sbucano un bambino e una bambina. Lui ha un secchiello in mano, lei un cappello. Si fermano in mezzo alla strada, tra i passanti, e il ragazzino comincia a bere qualcosa da una fiaschetta. Poi recupera una torcia che puzza di cherosene dal cestello. La infiamma, ci sputa sopra e una nuvola di fiamme si propaga dalle sue labbra, gettando vampate di luce e calore nella bolgia estasiata dei turisti a caccia di qualunque cosa somigli a stramberie esotiche. Mentre si esibisce, la bambina passa di tavolo in tavolo, di passante in passante, a chiedere un’offerta. Non possono avere più di 9 anni.