Quando sono stato nel sud est asiatico, sei anni fa, ricordo che provavo molto più caldo di adesso. Ero costantemente sfinito dai trentaquattro gradi centigradi di un’aria tanto umida da appiccicarti addosso ogni cosa: le maglie, i pantaloni e persino i peli delle braccia. Tornando oggi in Vietnam mi sono trovato vaccinato al calore: lo soffro molto di meno. Milano mi ha abituato, negli ultimi due anni, a temperature estive che si aggirano costantemente attorno ai 36 gradi e raggiungono picchi di 42. E ricordo i discorsi che facevo all’epoca, coi miei compagni di viaggio, quando sei anni fa ci dicevamo che il clima equatoriale “stava salendo” e che presto l’Italia sarebbe diventata una regione dalle temperature simili a quelle del sud est asiatico, segnata da monsoni catastrofici e periodi di secca.
Ma in fin dei conti, già da decenni, da quando si dice che non esistono più le mezze stagioni, abbiamo profetizzato questa apocalisse stagionale che avrebbe diviso l’anno solare non tanto in quattro, ma in due periodi, quello umido e quello secco. Come una globalizzazione di rimbalzo, il clima del sud est asiatico ci sta conquistando alla stessa maniera in cui noi, l’occidente, abbiamo colonizzato il modo di vivere vietnamita.
È questa la prima tappa del viaggio: Ho Chi Minh City, una megalopoli di 9 milioni di abitanti che si aggirano perlopiù in ciabatte, scorrazzando su centinaia di migliaia di motorini che percorrono le arterie stradali congestionandole come emboli. Io e Paolo, il mio compagno di viaggio, abbiamo raggiunto questi luoghi spinti da un’esigenza di evasione postpandemica, una ritirata strategica dalle nostre vite.
Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh City dopo la riunificazione del 1975, è una colata di asfalto sventrato da radici primordiali che sbocciano dai marciapiedi, dai palazzi in costruzione o dalle facciate nere e fatiscenti dei palazzi. Lungo le strade, l’elettricità è arrivata in maniera caotica, attraverso cavi neri e aggrovigliati, simili a capelli, che si attorcigliano da un palo di legno all’altro. Ai margini delle strade, i vietnamiti mangiano seduti su sgabelli non più alti di trenta centimetri. Consumano zuppette, riso, crostacei e spiedini in ristoranti veri e propri o chioschetti itineranti.
Molti di loro non hanno una cucina in casa e quello che noi chiameremmo street food corrisponde alla quasi totalità della loro dieta. Qui ogni cosa costa come uno scherzo, almeno per noi. Un panino sono 25mila dong, circa un euro, una buona zuppa si aggira attorno ai 40mila e il biglietto di un autobus interurbano viaggia sui 25 centesimi di euro. Alla fermata di ogni pullman c’è una persona adibita ad aiutare chi ne ha bisogno, la si trova seduta alla banchina o spesso sdraiata sul proprio motorino. Saliti sul mezzo c’è un autista e un controllore, quasi sempre una donna, che vende il biglietto.
Sono tutti dipendenti pubblici, e questo è solo uno degli indizi di come mai il tasso di disoccupazione vietnamita si aggiri attorno al 2% (altri indizi sono le guardie che stanziano tutto il giorno in gabbiotti sparsi per le strade, o sedute su seggiole all’esterno delle banche). Il comunismo, seppur ibrido, dal momento che i McDonald’s, i centri commerciali e i brand come Zara, H&M, Chanel o Armani non mancano, provvede a fare in modo che tutti, o quasi, lavorino, anche là dove il lavoro non ci sarebbe, o non servirebbe.
Lo stipendio medio di un abitante delle città è di circa 300 euro al mese, ed è un problema: sfogliando i quotidiani vietnamiti (tutti controllati dal partito e con nomi evocativi come Il popolo, L’esercito) si scopre che davvero tutto il mondo è paese e che anche qui il problema principale della popolazione, e del governo, è l’inflazione. Come un’onda d’urto, le conseguenze di due eserciti che si scontrano nel cuore del continente europeo hanno scosso l’economia vietnamita facendo decollare il prezzo del petrolio e, di conseguenza, anche quello di tutto il resto. Sebbene ora il costo della benzina (attorno ai 26mila dong al litro, poco più di un euro) abbia cominciato ad abbassarsi, non ha fatto altrettanto quello della vita, dei beni di consumo.
«Quando l’acqua del fiume si alza, la barca fa altrettanto», scrivono sui giornali. Il problema – dicono – è che l’imbarcazione dovrebbe tornare ad abbassarsi col ritirarsi del fiume, ma questo, si lamentano i giornali di partito, sta succedendo troppo lentamente: «Qui i prezzi salgono in fretta e scendono molto piano». Molti vietnamiti vivono con pochi euro al giorno, e questa mentalità, quella del risparmio, dello spendere poco e di contrattare persino sui centesimi, è simile a un demone che si impossessa dei turisti accendendo il loro sguardo da consumatori inebetiti con uno scintillio da compratori senza scrupoli, che sanno di avere la banconota dalla parte del manico.
Al mercato di Bến Thành, io e Paolo vaghiamo in un dedalo di bancarelle cubiche, tra stradine anguste, negli odori agrodolci delle loro salse e delle zuppe. Io cerco un paio di pantaloni nuovi dal momento che durante il viaggio in aereo un’intera boccia di antizanzare mi si è spaccata a metà nello zaino distruggendo metà del mio vestiario. Camminare al mercato è un’impresa angosciante. Gli occidentali non sono molti, e si riconoscono subito.
Oltre al colore della nostra pelle, i venditori riconoscono l’aspetto del denaro dai nostri abiti, dal nostro modo di camminare, forse anche dallo sguardo, e allora ti coinvolgono, con insistenza opprimente, trascinandoti per un braccio davanti alla loro merce e ripetono «t-shirt for you» oppure «souvenir for you», o ancora «we have size for you», come se ogni cosa, qui, fosse su misura for you, per te. Ma parlano un inglese quasi incomprensibile e così i pochi venditori che riescono a farsi capire sono anche quelli che hanno più successo coi turisti.
Io e Paolo veniamo ipnotizzati da una signora in zoccoli e pantaloncini corti, sedotti da una selezione di capi firmati venduti qui a un prezzo più basso di quelli dei nostri outlet, su cui comunque non abbiamo vergogna di contrattare ferocemente. Per 15 euro compro dei North face neri e per la stessa cifra Paolo acquista un vestitino da donna, floreale, per la sua ragazza. Con l’acquolina in bocca, compro anche un paio di scarpe Salomon da un altro negoziante. Spendo 20 euro e le indosso subito, ma mi accorgo che qualcosa non va. Dopo cinquecento metri la plastica delle guarnizioni comincia a sgretolarsi e l’etichetta “Salomon” si stacca.
«È giusto così», mi consola Paolo, mettendomi una mano sulla spalla. Per tornare a casa (un hotel a due stelle in una via Pasteur, da 10 euro a testa a notte, quindi abbastanza costoso) ci affidiamo al passaggio in motorino di un anziano locale che dall’età che dimostra deve aver vissuto la guerra. Saliamo in tre sul suo scooter, senza casco, mentre lui si destreggia nel traffico di clacson e prova a raccontarci qualcosa in una lingua che non conosciamo, mista a un inglese mal masticato.
Quando ci domanda da dove veniamo rispondiamo prima Milano, urlando per sovrastare il traffico e lui, strombazzando, risponde: «Milan, Inter». Vedendo che sul calcio ci si ritrova, andiamo più nel dettaglio: «Bergamo». E lui, annuendo, esclama: «Atalanta!».