Secondo i “pacifisti” italiani, quelli per cui Russia e Ucraina dovrebbero scendere a patti (leggi acconsentire all’annessione di pezzi della seconda alla prima), il nostro Paese sarebbe entrato di fatto in guerra a causa dell’invio di armi a Zelensky e al suo esercito. Fosse vero, sarebbe una delle guerre più povere e meschine mai intraprese. A guardare i dati del Kiel Institute for World Economy, che dall’inizio del conflitto raccoglie statistiche sull’assistenza internazionale all’Ucraina, siamo inequivocabilmente tra gli ultimi quanto ad aiuti militari a Kyjiv.
L’entità dell’impegno italiano appare essere abbastanza grande da fare gridare allo scandalo gli antimilitaristi e gli aedi del disarmo globale (che, per loro, dovrebbe cominciare sempre dall’Occidente, però) e allo stesso tempo, così limitato da far diminuire ulteriormente il nostro peso nello scacchiere globale.
Non siamo soli in questa situazione. La classifica dell’assistenza globale all’Ucraina è molto eloquente. Anche considerando gli aiuti umanitari e finanziari la preponderanza americana è totale.
Gli Stati Uniti, dall’inizio della guerra ai primi di ottobre, hanno dato 52 miliardi e 311 milioni, di cui più della metà, 27 miliardi e 645 milioni, sotto forma di invio di armi o di denaro per acquistarne. L’Ue, come istituzione a sé stante, solo 16 miliardi e 243 milioni, che salgono a poco più di 29 calcolando anche gli aiuti bilaterali dei singoli stati dell’Unione. Eppure nel complesso quest’ultima ha un Pil che è solo di un quarto inferiore a quello americano.
A latitare è il contributo dei Paesi centrali della UE, il suo core, potremmo dire: dall’Italia, appunto, alla Francia, dalla Germania, alla Spagna.
Berlino non è finora andata oltre ai 3,3 miliardi di aiuti, ma a dispetto del pubblico ludibrio verso Scholz di questi mesi, sono stati francesi e italiani a sfigurare più di tutti. I primi hanno stanziato solo 1,1 miliardi e i secondi 700 milioni, di cui solo 150 sono di assistenza per la difesa.
Il dato più importante, quindi, al di là delle singole cifre, è la divisione che sta interessando non solo l’Occidente, ma il Vecchio Continente stesso. Infatti, quell’insieme di Paesi che i neo-conservatori americani chiamavano “Nuova Europa”, ovvero l’Est, con l’esclusione dell’Ungheria, assieme ai Paesi scandinavi fornisce quasi la stessa assistenza all’Ucraina della “Vecchia Europa”, quella occidentale, che ha più del doppio della popolazione e del Pil.
Dalla prima viene il 7,4% degli aiuti totali, dalla seconda il 7,8%. E se consideriamo l’invio di armi vi è invece il sorpasso dell’Europa orientale: 9,8% contro 5,1% di quella occidentale. Quell’ampio schieramento che va dalla Slovenia alla Bulgaria, dalla Polonia alla Finlandia, supera, in questo caso, anche la UE come istituzione, che è responsabile del 6,1% dell’aiuto militare.
Naturalmente, però, a livello internazionale la parte del leone la fanno gli anglosassoni, con gli Usa in testa ma anche Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda. Da essi viene il 78,9% degli armamenti per Kyjiv.
I numeri sono ancora più chiari se paragonati alle dimensioni delle rispettive economie. Lettonia, Estonia, Polonia, Lituania, Norvegia, Slovacchia, Repubblica Ceca hanno speso finora tra il 0,25% e l’1,01% del proprio Pil per aiutare gli ucraini a difendersi dall’aggressione di Putin, includendo, ove applicabile, anche il contributo all’assistenza UE, che per questi Paesi è minoritario rispetto all’impegno bilaterale.
Hanno superato persino gli Usa e il Regno Unito, ma soprattutto spagnoli, tedeschi, francesi e italiani, che non sono andati oltre lo 0,15 – 0,17% del loro Pil. Mediamente la “Nuova Europa” ha sacrificato lo 0,37% del proprio reddito annuo contro lo 0,16% della “Vecchia”.
Questi dati rendono evidente un problema politico e culturale, che non è nuovo, ma sembra riacutizzarsi. Da un lato abbiamo popoli ed élite abituati a crogiolarsi nella sicurezza della propria comfort zone, fatta di livelli di benessere e di libertà date per scontate che non si sarebbe pronti a sacrificare né se si tratta di quella altrui, né, c’è da temere, se si trattasse un giorno della propria.
Non è solo il classico egoismo del vecchio ricco che non vuole rinunciare a ciò che ha acquisito nel corso del tempo, si tratta anche di cecità. Parte di questa comfort zone, infatti, è pure l’armamentario ideologico che impedisce di vedere se stessi come la parte più avanzata del mondo, e l’Occidente come baluardo di quella libertà data per scontata.
Da decenni non solo la sinistra, ma anche la destra (ne sappiamo qualcosa in Italia) è abituata alla flagellazione del modello capitalista occidentale, a un anti-americanismo politico-economico che è diventato anti-occidentalismo. Al punto da non riuscire a percepire l’Occidente come parte di una famiglia comune, ovvero un faro di democrazia e libertà per tutti coloro che, lontano da Europa, Usa, Australia, ci guardano con occhi ben diversi da quelli con cui noi stessi ci guardiamo. Gli stessi occhi che a Kyjiv ci vedono come modello da raggiungere e come ancora di salvezza.
Questa doppia cecità, dei governi e di gran parte della popolazione, è evidente anche dai dati della sola assistenza militare in proporzione alla spesa per la difesa. Da cui si nota come la tendenza europea a destinare una quota del proprio budget agli armamenti molto inferiore a quella degli Usa non contribuisce che in piccola parte allo squilibrio presente tra i Paesi riguardo l’assistenza militare all’Ucraina.
Qui si nota in modo ulteriore come l’Italia risulti impegnarsi pochissimo, dando solo 5,5 euro ogni mille spesi per la difesa in un anno, non solo se il confronto è con la Lettonia, che ne dà 427,11, o con gli Usa, con 39,97, ma anche se è con la Germania, che a dispetto degli attacchi subiti sul tema dà più del quadruplo di noi, 25,38 ogni 1000 di budget.
Quale sarà l’impatto di tutto ciò? Difficile non intravedere una perdita di importanza dell’Ue, in assenza di un maggior impegno nel teatro ucraino.
L’Ucraina, nel caso uscisse vincitrice dal conflitto, vorrà entrare nell’Unione Europea, ma a quel punto, dopo la ritrosia di questi mesi a dare maggiori aiuti a Kyjiv, Bruxelles sarà ancora un un player globale paragonabile a Usa e Cina? Tutto ciò provocherà un aumento delle divisioni sul fronte interno? Il nazionalismo polacco avrà trovato una sponda oltre l’Atlantico in seguito a questa vicenda?
L’Ue è ancora in tempo per recuperare un proprio ruolo. Come la vicenda del price cap mostra, Bruxelles tende a essere un diesel più che un turbo. Ma i tempi della storia, soprattutto negli ultimi, mesi sembrano essere molto più veloci di quelli delle cancellerie della “Vecchia Europa”.