Un monumentale couturierMarie Ottavi ci racconta il “suo” Karl Lagerfeld

Il libro è un racconto composto e multi-sfaccettato di un creativo che ha consacrato gran parte del suo tempo al lavoro. Ne abbiamo parlato direttamente con l’autrice che, per ben due volte, è riuscita a intervistare l’ex direttore creativo di Fendi e Chanel

LaPresse

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Marie Ottavi è una giornalista che scrive per Libération, il quotidiano francese fondato nel 1973 da Jean-Paul Sartre. Nella sua carriera ha avuto modo di intervistare due volte Karl Lagerfeld, il vulcanico tedesco per cinquant’anni alla guida di Fendi, e nel frattempo, deus ex machina dietro il successo in età contemporanea di Chanel. Da queste due lunghissime interviste, che oggi definiremmo confidenziali, è nato il libro “Karl”, il tomo da 650 pagine in edicola dal 22 settembre, edito da L’ippocampo. Certo, non solo di monologhi interiori è fatto il volume, che ha una bibliografia fittissima di dichiarazioni prese da vecchie interviste, accuratamente annotate, di Kaiser Karl, uno dei tanti soprannomi che gli sono stati dati in vita, ma anche di un variegato gruppo di persone che hanno gravitato intorno a lui per anni, decenni, o anche solo minuti. 

C’è l’amica e confidente Carolina di Monaco, c’è Tom Ford, c’è Alessandro Michele – che Karl chiamava affettuosamente DJ per quella sua abitudine a lavorare con della musica ad alto volume. Per chi non lo ricordasse, Michele infatti ha militato da Fendi alla fine degli Anni ‘90, e tra i compagni di banco, chiamiamoli così, aveva Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri, futuri direttori creativi in tandem di Valentino. Non manca l’aneddotica con testimonianze visive, di Betty Catroux, in forza nel clan di Saint Laurent, ma anche dichiarazioni fornite in tv o alla stampa da Pierre Bergé, il compagno storico di Yves Saint Laurent, che Karl lo ha sempre mal sopportato, per una serie di motivazioni che nulla avevano a che fare con quello che succedeva in passerella (anche se Bergé aveva delle idee molto chiare anche su quello, e le ha rese note fino alla sua scomparsa, nel 2017). 

Un libro, “Karl”, che arriva dopo un altro volume scritto dalla Ottavi, “Jacques De Bascher: Dandy de l’ombre” (per le edizioni Plon), disponibile solo in francese e che raccontava la vita dell’elefante nella stanza della moda del ventesimo secolo, quel Jacques De Bascher che secondo alcuni fu il motivo del litigio che allontanò per sempre Karl Lagerfeld e Yves Saint Laurent. «Fu proprio da quel libro, il primo che ho scritto su di lui, il dandy che fece innamorare entrambi i couturier e che condivise 20 anni di vita con Karl Lagerfeld, che è nato poi il libro dedicato a Karl», ci spiega Ottavi. 

«Appena dopo la sua pubblicazione, infatti fui chiamata proprio da Karl: da qui nacque un incontro e un’intervista nella quale chiacchierammo in maniera aperta di tutta quella fase della sua vita. Quando poi Lagerfeld è morto nel 2019, confrontandomi con colleghi e collaboratori dello stilista, ho scoperto di avere tra le mani un tesoro: Karl Lagerfeld non aveva mai parlato in pubblico o con la stampa di Jacques De Bascher». Questo, diciamo noi, nonostante la tormentata storia e l’ancora più tragica fine del dandy dalle origini nobiliari, siano note a tutti. Karl, insomma, pur con la sua capacità di parlare per ore di qualunque argomento, complice la sua sconfinata cultura, si è sempre frenato di fronte all’unico soggetto che faceva vacillare la sua teutonica flemma. Altro argomento sul quale il libro si snoda è appunto il rapporto con Yves Saint Laurent, che conosce sin da giovanissimo, già dal 1954, quando entrambi partecipano ad un concorso indetto dal Segretariato internazionale della lana, e che invita i partecipanti a disegnare dei bozzetti. 

I tre finalisti vedranno le loro creazioni realizzate dagli atelier di Givenchy, Jacques Fath e Pierre Balmain. Karl ha 21 anni, Yves solo 18: sono due tra i tre finalisti (l’altra sarà Colette Bracchi che poi, per sua scelta, non vorrà proseguire la carriera nell’abbigliamento, ma preferirà creare stoffe per l’industria tessile). Si riconoscono, nonostante siano molto diversi: Yves assai timido, all’apparenza, Karl beneducato, ma già vulcanico. Yves sarà il primo vero amico di Karl, sostiene Ottavi, e passeranno spesso i weekend insieme alle loro amiche, Victoire Doutreleau e Anne Marie Poupard, indossatrici da Dior, dove Yves lavora. 

Vanno spesso a Deauville, immortalandosi sulle sue Planches, ossia le 450 cabine da bagno in stile Art Dèco, le stesse sulle quali dieci anni più tardi si innamoreranno Jean Louis Trintignant e Anouk Aimée nel film Un uomo e una donna di Claude Lelouch. Yves e Karl influencer d’antan con altri mezzi? Fa sorridere pensarlo, ma venivano entrambi da famiglie benestanti, e passano senza grandi pensieri degli anni insieme, come amici, mentre lavorano negli uffici stile, Yves da Dior, Karl da Balmain. Questo almeno fin quando nel quadro non entra Pierre Bergé, compagno di Yves, e poi, diversi anni più tardi si aggiunge il carico da 90, quel Jacques De Bascher: Bergé incolperà sempre Karl di averlo presentato a Yves per fargli dispetto, così come lo accuserà di essere stato sempre invidioso di Yves, già acclamato genio a 20 anni. 

Accuse rispedite al mittente direttamente da Carolina di Monaco, una delle più intime amiche di Karl, che dirà in un’intervista alla giornalista «Questa rivalità è stata soprattutto alimentata da Pierre Bergé. Karl ha sempre detto che Yves gli piaceva molto, che era molto divertente e che era stato Bergé a separarli. Non ho mai visto gelosia. Ne parlava poco, per altro». Senza voler svelare troppo, il libro racconta insomma 70 anni di moda, gli anni dello Studio 54, degli americani che trovano fortuna a Parigi come l’illustratore Antonio Lopez, di Halston, di Mugler e Alaia, del Caffè Flore e del Palace, costruendo una geografia sentimentale di una Parigi dimenticata, e che però ha cambiato per sempre il mondo del costume. Lontano dall’essere una delle tante agiografie partorite da uffici stampa che ricostruiscono le vite dei couturier chirurgicamente, privandole delle asperità e dei difetti, nel libro di Ottavi a Karl, ma anche a tutti gli altri, non si risparmia nulla. 

Le sue uscite infelici, le bugie bianche raccontate anche quando tutti nella stanza erano consapevoli che mentisse, come quelle sulla sua età, sulle origini dei genitori, che lui definiva come nobiliari, l’assolutismo con il quale dimenticava e cancellava dalla sua vita amici e collaboratori che lo avevano accompagnato fedelmente per anni, sono raccontati attraverso i ricordi di chi è rimasto, senza fare sconti, e però senza voler rovistare nel torbido, facendone un cattivo, o anche un buono, in senso assoluto. Karl ricopre gli amici di regali, vestiti, pensieri, non solo perché in questo modo si assicura la loro assoluta obbedienza, suggerisce il libro, ma anche perché, come lo stesso creatore ha sempre detto, Karl ha “orrore del rapporto fisico”, teme assai la malattia, non vuole neanche pensare alla morte, non gli interessa insomma, la dimensione corporale dei rapporti emotivi: questo non vuol dire che non fosse sinceramente affezionato alle persone delle quali si circondava. Un atteggiamento che cambierà solo nella parte finale della sua vita, e per colpa non di un essere umano ma di un gatto, Choupette, che l’amico e modello Baptiste Giabiconi gli affida prima di partire per le vacanze, e al quale Karl si affeziona talmente tanto da non volerglielo ridare, al ritorno. 

«Ne nascerà l’unico rapporto affettuoso in senso fisico della sua vita», spiega Ottavi divertita. «Una volta, con il mio giornale, dovevamo fare uno speciale sugli animali, e Karl volle che io scrivessi un profilo di Choupette. All’inizio ero un po’ contrariata. Scrivere un profilo di un gatto: non si era mai visto. Fu talmente insistente che poi accettai, scoprendo che Choupette era dotata del suo team Pr dedicato, del suo parrucchiere, del suo fotografo. Gli amici raccontavano che non essendo abituato ad abbracciare animali o persone, inizialmente Karl non sapeva come fare, e ogni volta che teneva la gatta in braccio, rischiava di strozzarla». Le bugie sull’età, secondo Ottavi, invece «vengono dal desiderio di Karl di allontanarsi dagli anni bui del nazismo, facendo intendere che fosse troppo piccolo all’epoca per aver capito molto del periodo». 

Karl non era neanche adolescente all’epoca, sia chiaro, ma la sua famiglia come molte famiglie tedesche, era stata iniziale sostenitrice del regime di Hitler, per poi rendersi conto del terribile errore. Niente del quale vergognarsi, e però meglio raccontare, agli altri e forse anche a se stesso, tutt’altra storia. Altro grande argomento che attraversa quasi tutto il libro, è il rapporto con sua madre, Ebbe, che oggi molti psicologi definirebbero serenamente “tossico”. «Sua madre era molto rigida, è vero», spiega Ottavi, «ma di fronte a questa rigidità Karl si è sempre rifiutato fin da bambino di giocare il ruolo della vittima, ma ha preferito trarne degli insegnamenti di rigore che poi ha portato avanti per tutta la vita». Karl adorerà sua madre, sosterrà spesso che quel tipo di schermaglia fosse il loro modo di scherzare, quello di lei di prepararlo alla vita. Certo, Karl impara a parlare velocissimo, a macchinetta, perché lei da bambino lo obbligava a rincorrere il tempo e le parole, se voleva parlare con lei, perché, gli diceva, “gli avrebbe dato ascolto fin quando non fosse uscita dalla sua camera, quindi avrebbe fatto meglio a sbrigarsi”. 

Nel dirlo, aveva già preso la direzione della porta: non esattamente un classico esempio di madre amorevole, ma, da quanto sappiamo, Karl ha sempre adorato Ebbe, e 25 anni dopo la sua morte, è stato anche per via di lei che ha deciso di perdere 40 chilogrammi. «Ho pensato a quello che avrebbe detto mia madre guardandomi allo specchio, e ho preso la decisione», spiegava lui stesso. Certo, quel desiderio era nato anche perché, non si piaceva più, e dall’altra parte, gli piacevano invece moltissimo i completi da uomo che il giovane Hedi Slimane realizzava da Saint Laurent, dal fit affilato, adatto solo a fisici filiformi. Certo, aveva promesso a se stesso che non avrebbe mai più indossato nulla di Saint Laurent, ma faceva togliere le etichette e indossava quei completi nei quali gli era costata fatica entrare: un’altra delle bugie bianche che si racconterà per tutta la vita.

Il libro, insomma, è un racconto composto e multi sfaccettato di un creativo che ha consacrato gran parte del suo tempo al lavoro, creando fino allo sfinimento e dando in realtà vita al meccanismo malato di over-production che esiste anche oggi, tra resort, Cruise, pre-fall: un workaholic che ha vissuto gli eccessi, come lui stesso ammetteva, «per procura». Un po’ come Andy Warhol, dal quale si fece spesso ritrarre, era l’unico sobrio alle serate, e però si divertiva moltissimo nel circondarsi di gente che la misura, nella sua vita, non l’aveva mai conosciuta, come Jacques, e anche come Yves. Ma Karl era anche un essere umano, forgiato da traumi, dolori, piccole sconfitte e un grande amore. «Le storie dei creativi del secolo scorso sono romanzesche», spiega Ottavi, «e per questo interessano il grande pubblico. Raccontare la loro storia non vuol dire soltanto raccontare la loro vita privata, ma anche l’evoluzione della figura del femminile e del costume, alla quale hanno contribuito in maniera decisiva». 

Ottavi ha ragione, e le ha dato ragione di recente anche il reparto audiovisivo: attualmente è nelle fasi di produzione un documentario su John Galliano, quello su Alexander McQueen del 2018 è già un culto tra gli insider, Apple TV ha annunciato a febbraio la realizzazione di New Look, serie che vedrà come protagonisti Christian Dior e Coco Chanel, durante l’occupazione tedesca e nel primo dopo guerra. Certo, il problema con le produzioni cinematografiche per il piccolo e grande schermo, che vogliono essere interessanti anche per un pubblico che probabilmente poco sa davvero, delle vite di questi designer, è che, essendo state le loro vite, come sostiene Ottavi, assai romanzesche, si rischia l’effetto pamphlet, melò da Canale 5, come è successo con Made in Italy, produzione italiana che, senza dirlo, vuole raccontare l’ascesa e la carriera di Franca Sozzani, e però trasforma la bionda dai capelli botticelliani, di famiglia benestante mantovana, laureata in filologia germanica, in una mora con padre operaio trapiantato nella grigia Milano dal più ameno sud. 

Non è andata meglio ad House of Gucci, che ha trasformato la famiglia fiorentina in un clan dall’inglese maccheronico, e dai contorni di una macchietta. Anche se a dirigerlo c’era Ridley Scott, si è sublimata la tragedia in una farsa, come ha detto lo stesso Tom Ford, che in quegli anni, c’era, in un suo pezzo scritto per AirMail. Halston, la miniserie dedicata al grande creativo americano, prodotta da Netflix, è ricaduta nello stesso errore, restituendo un’immagine monodimensionale di un designer che appariva più interessato al cruising e alla droga consumata sui tavoli dello Studio 54, che al suo lavoro eccezionale come stilista. Al netto di ciò, l’interesse nel mondo della moda in Italia è vivo come mai, e  forse può trovare risposte più complesse e soddisfacenti tra le pagine dei libri: non si tratta solo di memoir, in questo caso, ma anche di manuali che raccontano gli smottamenti sociali che la moda ha causato in tempi recenti. 

Nel 2006, il libro di Alicia Drake, “Beautiful People”, che raccontava più o meno la stessa storia della Ottavi, concentrandosi sulle carriere parallele di Lagerfeld e Saint Laurent, divenne un best seller all’estero, ma non venne neanche tradotto in italiano, rendendo evidente il disinteresse delle case editrici tricolori per l’argomento: oggi invece, sono molteplici i libri che si occupano in maniera non scolastica dell’argomento. Maria Luisa Frisa, critica e curatrice di moda, ha pesantemente rimaneggiato il suo libro Le forme della moda, delle edizioni Il mulino, uscito originariamente nel 2015, e ne ha realizzato una nuova versione per il 2022. Andrea Batilla, consulente ed esperto, ha pubblicato di recente il suo terzo libro dedicato alla moda, Come ti vesti, dove c’è una approfondita disamina storica su come sono cambiati dal 1500 a oggi gli abiti, quando sono nati i concetti di maschile e femminile, con le correlate distinzioni valoriali che hanno sfavorito le donne. Un terzo libro che arriva dopo il successo del primo, che ha superato le 16 mila copie. Cosa è successo, quindi, all’interno delle case editrici, per far loro cambiare idea e intenti, e come si sono accorte che c’era un pubblico potenzialmente importante, per questo argomento? Lo abbiamo chiesto ad Armando Minuz, editor di Gribaudo, casa editrice che ha pubblicato i libri di Batilla. 

«È innegabile che i libri che raccontano la moda stiano vivendo una nuova stagione » dice Minuz. In Gribaudo già anni fa avevamo pubblicato, acquistandolo dall’estero, uno splendido libro, molto iconico, che si intitolava semplicemente “Moda”. Il volume è diventato un long seller con oltre 10.000 copie e a un prezzo non esattamente “pop” (39.00 €). Un segno, fra l’altro che chi segue la moda, se trova il testo giusto, è disposto a spendere. Ma è con Andrea Batilla, piccolo-grande caso editoriale, che ci siamo resi conto che l’editoria di moda aveva un suo potenziale al di là dei coffee table book o dei grandi titoli che arrivano, molto spesso anche se non sempre, dall’estero. Anche i due libri di Batilla pubblicati con Gribaudo sono diventati due longseller, in particolare “Instant Moda”. 

Di fatto il libro perfetto per il momento che stiamo vivendo, perché si è posto l’obiettivo, centrandolo in pieno grazie alla cultura un po’ irriverente e allo stesso tempo profondissima di Andrea, di prendere una tematica da molti percepita come “frivola”, raccontandone invece le infinte sfumature e, soprattutto, le infinite connessioni con la società, con la cosiddetta “vita di tutti i giorni”. Credo che per molti il concetto stesso di moda rimandi ancora oggi a qualcosa di separato dalla realtà, dunque permane l’idea che la moda sia una casta e i suoi “eletti” gli abitanti di una torre d’avorio. In realtà la moda (ma questo lo diceva già anni fa Roland Barthes) è sempre un tentativo di leggere il mondo, a volte addirittura di predire il futuro. 

Senz’altro è uno dei modi migliori per cercare di capire chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. È un concetto estremamente semplice, perché l’abito fa il monaco. Solo che prima di leggere il libro di Andrea molti di noi non lo conoscevano.» Ha ragione Minuz quando dice che il mondo esterno percepisce la moda come frivola, e i suoi protagonisti, come parte di una casta che si sente eletta, e che per questo è distante dal resto del genere umano: il successo di questi volumi però, può dare una visione diversa. Se la moda si racconta e viene raccontata con onestà, mostrando le difficoltà e la complessità, senza coprire le parti meno “piacevoli” con una patina opaca, come spesso succede con uffici stampa e famiglie che vogliono replicare un’immagine monodimensionale, si arriva al cuore del racconto. 

Parliamo qui della narrazione di storie, per alcuni versi eccessive, dibattibili e – a volte – anche criticabili, ma caratterizzate da una forte fame di vita. Ci sono le brutture, i difetti, le ossessioni, le bugie che raccontiamo a noi e agli altri per sostenere meglio il peso dell’esistenza: c’è tutto quanto rende i creativi non meno grandi, ma di certo più umani. E di conseguenza, più simili a tutti noi. E in questo, non ci sembra che ci sia davvero nulla di sbagliato.

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