Se non avete ancora ascoltato “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Eccetera dedicato al fashion system, cliccate qui.
Cottage-core, goblin mode, that girl, girl Boss: i lemmi e i tropi lanciati da TikTok ormai non si contano più, e hanno contribuito a creare figure mitologiche, tutte ugualmente sconfitte dal tempo e dalla consapevolezza sociale che si è modificata. Dopo il dovere ad essere la migliore versione di se stessi del #thatgirl, c’è il diritto a fare schifo del #goblinmode. Ma come nascono questi fenomeni, e perché, nonostante i milioni di visualizzazioni, dovremmo guardarli con il giusto distacco? Ne parliamo oggi, alla Teoria della Moda.
Qual è stata la nostra versione migliore di noi stessi, quella semplificata dall’hashtag #thatgirl in questa calda estate? Oppure abbiamo preferito, complice la situazione geopolitica complicata e quella ambientale disastrosa, che a prendere il sopravvento fosse il #goblinmode? O, invece, ci sentiamo ancora legate all‘estetica, dotata di un suo fascino, della #girlboss? E il Cottage-core? Sembra essere questo l‘interrogativo che ha tenuto banco sotto l‘ombrellone, almeno sugli schermi di TikTok.
Domande amletiche che hanno iniziato a circolare già da marzo, quando, grazie ai misteri dell‘internet e a quelli dell’evoluzione umana, che ad un certo punto deve aver incontrato degli intoppi ancora sconosciuti, e si è incagliata in qualche angolo del social più amato dalla Gen Z, abbiamo lasciato che un hasthag con svariati milioni di visualizzazioni potesse indicarci la via della crescita personale.
All‘epoca, qualche mese fa – delle ere geologiche per i social – spopolava online l‘hashtag e la conseguente religione legata al fenomeno #thatgirl che ad oggi ha raggranellato 5,3 miliardi di visualizzazioni sulla piattaforma di proprietà di ByteDance. Donne e ragazze che raccontavano a mezzo web come l’autorealizzazione personale venisse da un rapporto più intimo con se stessi, articolato in una serie di attività più o meno olistiche: il journaling, quindi la pratica di raccontare i propri pensieri più intimi a un diario, come si faceva più o meno tutti tra gli anni Ottanta e i Novanta, senza sentirsi per questo Osho, ma anche l’esercizio costante della mindfulness, la pratica dello yoga, insieme a operazioni meno psicologiche e ben più pratiche. Essenziale secondo #thatgirl è utilizzare una skincare routine, meglio se ovviamente con prodotti coreani, il Sacro Graal delle appassionate del settore, in 12 comodi step, oppure ordinare giornalmente dal proprio Starbucks di riferimento complicati misture e matcha latte con talmente tante peculiarità da rendere la vita ai baristi impossibile, e il calcolo calorico inutile. Un impegno costante nel prendersi cura di se stessi, al fine di diventare “the best version of yourself”, che ha anche generato delle challenge al fine di moltiplicare l’effetto benefico ad libitum, e che però, come hanno fatto notare molti dei detrattori, si asservisce al capitalismo più becero.
@emalygisell #thatgirl#thatgirlaesthetic #motivation#healthylifestylechange #healthylifestyle#fyp
Per essere #thatgirl non basta solo la buona volontà, ma anche una capacità di spesa notevole, visto che le sue rappresentanti consigliano alle proprie follower tutta una serie di prodotti imprescindibili, da acquistare rigorosamente online, per poter intraprendere seriamente il proprio viaggio di catarsi spirituale. Non che ci sia molto da stupirsi, visto che #thatgirl non è stata altro che un‘iterazione meno nociva dell‘estetica del #girlboss, termine coniato nel 2014 da Sophia Amoruso, fondatrice del sito Nasty Gal, che promuoveva un approccio totalizzante alla carriera: la girl boss è ambiziosa e non se ne vergogna, è dotata di grande spirito di iniziativa, è una donna che si è fatta da sé, non si fa impaurire dagli ostacoli sulla sua strada, studia, ma ovviamente ha diversi progetti collaterali ai quali lavora, ed è disposta a sacrificare sull‘altare del lavoro e della realizzazione professionale, buona parte della sua vita, anche se, va detto, non si presenta mai a un colloquio di lavoro o a una sessione di spinning delle 5 di mattina – quando ovviamente è già sveglia per pianificare il suo futuro – con un capello fuori posto.
@sophiaamoruso A few of my tips for setting yourself up for success ✔️ Learn more about Business Class at the link in my bio.
Un approccio che vedeva in Sheryl Sandberg, fino a giugno 2022 direttore operativo di Facebook, oggi Meta, la divinità di riferimento, e che ha trovato le proprie rappresentanti in diverse giovani imprenditrici americane, tutte accomunate dal fatto di essere bianche, con un grado di istruzione universitaria, e ovviamente molto benestanti. Il motto molto statunitense del “se vuoi, puoi”, si è poi rivelato in tutti i suoi limiti solo qualche anno dopo, quando diverse di queste imprenditrici hanno dovuto fare dei passi indietro rispetto ai loro ruoli di Ceo e presidente delle proprie aziende, dopo essere state accusate di aver creato degli ambienti lavorativi tossici e discriminatori, alla faccia del femminismo e della solidarietà tra donne: è successo così a Leandra Medine, una volta blogger di Man Repeller, poi diventato giornale online, ma anche a Christene Barberich, fondatrice del sito Refinery 29 e a Steph Korey fondatrice del brand di valigeria Away, che nel 2020 hanno annunciato le loro dimissioni.
@helpingprofessional Don’t Leave Before You Leave #helpingprofessional #sherylsandberg #motivation #inspiration
Non c‘è nulla di intrinsecamente sbagliato nell’ambizione lavorativa – nessuno la rimprovera agli uomini d‘altronde – ma certi slogan ottimistici, che mettono l’accento sull’importanza fondamentale del “duro lavoro”, rischiano di essere escludenti, e far sentire meno “femminista”, chi invece non ha il desiderio di sacrificare tutto per la carriera. E in effetti la critica poi mossa da psicologi e anche femministe come Katherine Angel nel libro “Il sesso che verrà: donne e desiderio nell’era del consenso”, uscito nel 2022 con le Edizioni Blackie, era che questo tipo di femminismo performativo fosse in realtà molto tossico, perché negava l’esistenza non solo di un sistema capitalistico dicotomico – che facilita ovviamente chi nasce ricco – ma anche di un ambiente lavorativo ancora fortemente misogino.
Insomma, per sconfiggere il maschilismo basta solo un sacco di forza di volontà, secondo le girl boss. Il fatto che queste donne siano poi state accusate di aver creato luoghi di lavoro a loro volta discriminatori contro le minoranze, non ha fatto altro che dare conferma a questi dubbi. Tutti topos, quelli della girl boss e della sua iterazione olistica, that girl, che sono stati abiurati quando è entrato in scena il goblin mode. Un termine che è diventato in poco mitologico, raccogliendo milioni di visualizzazioni su TikTok, già dal suo concepimento (a oggi che stiamo registrando la puntata, a fine luglio, siamo a 9 milioni di visualizzazioni): anche se infatti il termine è stato coniato nel 2009, la stampa lo ha attribuito erroneamente a Julia Fox, starlette divenuta nota di recente, per una sua breve storia con Kanye West, che, commentando la fine della relazione con il cantante e produttore, aveva affermato come a lui «non piaceva quando io andavo in goblin mode». Dichiarazioni che poi la Fox ha specificato dal suo Instagram di non aver mai fatto, ma tanto è bastato perché la folla del web si scatenasse.
@lucyblee it’s 4pm let’s go goblin mode #afternoonslump #goblinmode #theofficeclips #wokebros #ChewTheVibes #vintageootd #jimhalpert
Ma cosa vuol dire poi, goblin mode? Semplicemente, come lo hanno descritto proficuamente molti siti, è il “diritto a far schifo”, il sentirsi autorizzati, dalla situazione mondiale drammatica, tra guerre, crisi idriche ed energetiche, crisi di governo e compagnia cantante, a girare per casa con un pigiama sporco, mangiando le patatine sul letto, o consumando il pranzo sul lavandino per evitare di sporcare vettovaglie; guardare reality tv facendo binge watching di contenuti comunemente definibili come trash; sprofondare con un certo perverso godimento nell‘auto commiserazione scrollando per ore il feed di instagram, e insomma, crogioliarsi nella “peggiore versione possibile di noi stessi”. Tutto ovviamente a favore di social.
Il Guardian lo ha definito «un abbracciare la comodità della depravazione, allontanandosi dal cottagecore». Se questa definizione ha aggiunto confusione allo smarrimento tra i lemmi in uso su Tiktok, vi basti sapere che durante i primi mesi della pandemia, il cottagecore è stato un trend che, forse inconsapevolmente, avete abbracciato anche voi, quando avete pensato che la situazione di reclusione sarebbe durata al massimo un paio di settimane, e avete decantato i privilegi del tornare a una vita semplice, panificando e preparando conserve, come se foste un membro della famiglia Ingalls nella Casa della Prateria.
@alltheferalfawns Waking up slow☕️ #cottagecore #fairycore #fyp #faerie #aesthetic #coquette #morning
Ecco, cercare di trarre una lezione o una qualche forma di miglioramento personale da qualunque ostacolo ci si presenti sulla strada, che si chiami cottagecore o #thatgirl, è quanto i rappresentanti del goblin mode abiurano, rivendicando il diritto a crogiolarsi nell’autocommiserazione, rinnegando qualunque tipo di responsabilità nell‘evoluzione del proprio destino. Più che però un “Grande Lebowski” in maglione avvolgente e pantofole di fronte al banco dei surgelati al supermercato, l‘ideale da replicare è quello di una Zendaya in felpa chiazzata, che ciondola per casa con lo sguardo perso nel vuoto, mentre interpreta la tossicodipendente Rue in Euphoria.
Se è comprensibile, in questi tempi difficili, che la decisione di abdicare a qualunque responsabilità, rinchiudendosi in casa con del cibo spazzatura, possa rendere questo tipo di approccio un modello aspirazionale, ciò non toglie che il tutto banalizzi problematiche ben più serie, come quello della depressione tra i giovanissimi, soprattutto dopo due anni di pandemia e la forzata reclusione in casa, che ha causato un tasso altissimo di abbandono scolastico (e non solo). Secondo l‘indagine della regione Lombardia, e dell‘assessorato regionale all’Istruzione del 2021, si è passati da una percentuale del 12,5% ad una del 15,7% di abbandono scolastico, mentre sempre lo scorso anno, la Fondazione Mondino dell’Istituto Neurologico Nazionale di Pavia, ha pubblicato un preoccupante report dove sostiene che le richieste di ricovero nell’istituto da parte di adolescenti in gravi difficoltà sono letteralmente raddoppiate.
Perché parlarne ora, che il trend, si spera, si sarà esaurito? Perché quando un trend finisce, o diventa incompatibile con la consapevolezza sociale contemporanea, un altro è pronto a iniziare: e se la #feralgirlsummer, pubblicizzata dai sostenitori del goblin mode, è alle nostre spalle, dalla nuova stagione scolastica e anche modaiola che si inaugura ogni settembre, con le fashion week incombenti, ci si aspetta di tutto.
Ora, nessuno vuole togliere a TikTok il ruolo di social nel quale si sdrammatizza con una certa sagace ironia sulle miserie umane contemporanee: il consiglio, però, è di non affidargli la responsabilità di decidere della versione di noi stessi che vogliamo essere per la prossima fall/winter. Per sbagliare, non ci serve certo la spinta di un social che ci obbliga ad adeguarci a un canone fuori dal quale ci si sente inadatti. Gli errori – come diceva un cantautore che dovremmo presto rivalutare, Ligabue – in fondo, «siamo bravissimi a commetterli anche da soli».