Mediterraneo addio. La culla delle civiltà occidentali, quel bacino di interconnessioni culturali e scambi che ha visto la nascita dell’agricoltura e della scrittura, delle arti e della filosofia si sta demediterraneizzando. I suoi fondali e i suoi abitanti stanno cambiando radicalmente a causa di un’invasione silenziosa ma inesorabile, che dagli anni ’90 ha subito una netta accelerazione, proveniente da tre vie: il Canale di Suez, la principale, lo stretto di Gibilterra e azioni umane come il trasporto marittimo, la maricoltura e il rilascio da acquari.
Il primo fu il banalissimo pampo, un classico pesce grigio con le pinne. Avvistato nel 1896, aveva però una caratteristica che allora non sembrò preoccupante: era giunto da fuori, passando quel Canale di Suez inaugurato 27 anni prima. Ad oggi sono 1000 le specie che hanno “occupato”, come un inquilino moroso, il Mare Nostrum rendendolo il mare più invaso del mondo. Oltre un secolo di colonizzazione ricostruito da una ricerca pubblicata dalla rivista Global Change Biology. Ne abbiamo parlato con il coordinatore Ernesto Azzurro, ricercatore del Cnr-Irbim.
«Il Mediterraneo è un mare ricchissimo: occupa lo 0,8% della superficie di acque salate del Pianeta e contiene circa l’8% della biodiversità marina. Cent’anni fa era popolato da grandi predatori, tonni, squali, che oggi sono in grandissima difficoltà o considerati specie a rischio. Era un mare ricco anche di piccoli pelagici come sardine e alici, anche questi pesantemente sfruttati dalla pesca. Il vuoto ecologico che hanno lasciato è stato in parte occupato da organismi gelatinosi: meduse, ctenofori e anche specie invasive come la Mnemiopsis leidyi che viene dall’Atlantico, che non punge come le meduse ma fa man bassa di uova e larve di pesci».
Un mare più povero.
«Sì ma non in senso del numero di specie, anzi: ce ne sono 1.000 in più, ma a livello locale sono specie che hanno diminuito la biodiversità, come il pesce scorpione, un predatore formidabile che attacca gli animali più giovani, o il riccio diadema. Mentre stanno progressivamente scomparendo pesci come lo spratto, che ha fatto la storia della pesca in Alto Adriatico e in Francia, o la salpa, un erbivoro molto noto ai pescatori che nel Mediterraneo orientale non si vede più».
I fondali che percorrevano i palombari di fine Ottocento insomma sono ben diversi da quelli che si trova davanti un sub oggi…
«Prendiamo il pesce coniglio: rade a zero fondali ricchi di alghe e biodiversità lasciando grandi distese di nuda roccia, dei veri e propri deserti. È ben osservabile in tutto il Mediterraneo orientale ma sta avanzando verso le nostre coste, è stato avvistato a Zante. Non solo: uno studio effettuato lungo la costa israeliana ha rilevato un crollo di oltre il 90% di biodiversità di molluschi nel primo metro d’acqua».
Quali sono le aree più colpite?
«Il gradiente termico va da Est a Ovest, i settori orientali sono molto più caldi e quindi oggi le più colpite sono le coste di Siria, Israele, Turchia e Grecia, fino a Libia e Tunisia».
Nella timeline dell’invasione si registra una netta accelerazione dagli anni ’90: cosa è successo?
«Temperatura e salinità in aumento stanno facilitando l’invasione. Al momento abbiamo questi due fenomeni piuttosto nuovi rispetto all’impatto della pesca o dell’inquinamento di cui si è parlato molto in passato: il cambiamento climatico, che sta trasformando il Mediterraneo in un bacino sempre più inospitale per le nostre specie, e l’arrivo di specie invasive. Va fatta una premessa: le specie mediterranee hanno una provenienza atlantica perché 6 milioni di anni fa, con la crisi del Messiniano, il bacino si chiuse prosciugandosi quasi totalmente. La fauna originaria si estinse; quando per motivi tettonici si aprì lo stretto di Gibilterra, il Mediterraneo si ripopolò con specie atlantiche per lo più provenienti dalle zone temperate boreali. È quindi una fauna che non si trova a suo agio con le attuali temperature in rialzo».
Lo stretto di Sicilia è un osservatorio privilegiato per monitorare questi cambiamenti.
«Fino a una ventina di anni si era ipotizzato che l’invasione dovesse rimanere confinata a est del Canale di Sicilia, ma dagli anni ‘90 in poi anche questa barriera è stata superata: oggi abbiamo osservato tre specie che dal Mar Rosso hanno raggiunto lo stretto di Gibilterra. Il cambiamento climatico sta rinforzando quel corridoio che consente alla fauna di percorrere l’intero Mediterraneo e arrivare all’Atlantico, mettendo di fatto in comunicazione il sistema indopacifico e l’Oceano Atlantico, che sono rimasti separati per milioni di anni».
Le soluzioni?
«Da anni gli scienziati chiedono all’Egitto di inserire delle barriere saline nel Canale di Suez per bloccare l’ingresso di specie. Una volta entrate nel Mediterraneo il problema non è più risolvibile, possiamo solo adattarci: promuovendo il consumo delle specie esotiche invasive a fini alimentari, ma anche ampliare le aree marine protette che creano un ecosistema più sano, forte e capace di resistere alle invasioni. L’Italia si è impegnata a portare al 30% la copertura delle aree marine entro il 2030».
L’invasione ittica è l’avanguardia di un problema più generalizzato.
«Sì perché le specie marine sono un gruppo che risponde molto velocemente alle modificazioni ambientali, per la loro capacità di muoversi e spostarsi facilmente».
Come sarà il Mediterraneo del futuro?
«Ci aspettiamo una sostituzione di specie invasive che rimpiazzeranno le temperate cambiando completamente i giochi. La Fao segnala una diminuzione della biomassa disponibile per la pesca perché le specie tropicali sono più piccole e crescono meno velocemente. Avanzeranno i deserti sottomarini e si intensificheranno gli eventi di mortalità di massa dovuti ai picchi di temperatura, ne abbiamo già documentati per 50 specie marine tra ricci, gorgonie e pesci. Si parla molto dello sbiancamento della barriera corallina, ma cose simili stanno succedendo anche da noi».