«Il gruppo dirigente del Pd? Generali che stanno sulla collina mentre la battaglia infuria giù in pianura». Roberto Morassut, unico deputato eletto nei collegi uninominali di Roma, ricorre a Francesco De Gregori, il cantautore nel cuore della sinistra romantica romana, per il suo sferzante giudizio sul Partito democratico e il suo gruppo dirigente. Eh sì, perché non solo correva senza il comodo paracadute del proporzionale, ma quel collegio in cui ha vinto – il quarto, che comprende i quartieri del quadrante sud come Cinecittà, una delle zone più densamente popolate d’Europa, abitata dal mitico popolo che il Pd ha smarrito, una di quelle periferie dove i dirigenti dem sono solitamente sconosciuti – ha dovuto conquistarlo con le unghie e con i denti perché il gioco delle correnti l’aveva assegnato a un altro candidato completamente estraneo al territorio che invece Morassut, assessore nelle giunte Veltroni e parlamentare di lungo corso, che qui è nato e vive, conosce palmo a palmo.
È uno dei tanti paradossi di un partito nel quale i dirigenti si blindano nei listini e si spartiscono i collegi senza alcuna apparente logica che non sia il bilancino delle correnti, un partito come quello romano dove la discussione interna assomiglia a quelle risse da osteria che si risolvevano con la lama della «santa smacola», magnificamente raccontate nei film di Sergio Corbucci e Gigi Magni, (ricordate il «Te devi inginocchià» pronunciato dall’ex-capo di gabinetto di Nicola Zingaretti contro un avversario interno?); un partito che adotta modi plebei senza essere popolare, che governa la regione da dieci anni, che ha riconquistato il comune, che ha espresso un segretario nazionale il quale, dopo aver nominato Giuseppe Conte «leader fortissimo dei progressisti» e averlo difeso fino al grottesco tentativo del Conte Ter con i Ciampolillo, ha lasciato senza guida un partito del quale ha detto di «vergognarsi», ecco questo partito che ha perso tutti i collegi tranne uno fa diventare l’unico eletto una mosca bianca.
«La nostra ricetta è semplice, anche se non voglio dare lezioni a nessuno – dice Andrea Raco, segretario del circolo Cinecittà-Morena – una campagna elettorale all’antica, per strada, casa per casa, e un candidato radicato». Spiega Morassut: «Sono un deputato di collegio all’inglese: vivo qui, ci sono sempre tornato dopo essere stato eletto, ho mantenuto un rapporto costante con il popolo, la gente mi riconosce e mi vuol bene perché io mi occupo di loro anche dopo il voto». Domando perché una cosa che in un partito di sinistra dovrebbe essere la regola sia invece l’eccezione.
«La nostra classe dirigente si rifugia negli apparati correntizi, per essere tutelata si rivolge verso l’alto e non verso il basso». Il giudizio del deputato dem sul futuro del partito è severo: «Abbiamo di fronte un cartello su cui sta scritto ‘Strada senza uscita’, il ciclo cominciato nel 2007 è finito, il Pd è diventato una caricatura dei vecchi partiti di provenienza, lo dico dal 2016, quando lanciai l’dea purtroppo inascoltata di una costituente del Movimento dei democratici. Le stesse primarie, la costituente, disegnano un percorso puramente meccanico se non si affronta il tema della collocazione dei Democratici nella società italiana».
Da un quadrante di Roma all’altro, siamo alla Garbatella, Municipio popolare governato dal centro sinistra con Amedeo Ciaccheri, ma anche il luogo dove è cresciuta Giorgia Meloni, incautamente accusata da una (per altro bravissima) deputata del Pd come Lia Quartapelle di essere rimasta «una ragazza della Garbatella» e di non avere dunque la statura «da presidente del Consiglio». È qui che incontro Antonella Melito, 36 anni, consigliera comunale del Pd, di estrazione popolare, giovane, caparbia, capace. Lei è partita da basso, il circolo, poi il municipio, ora il Campidoglio. «Meglio più ragazze della Garbatella e meno ragazze cresciute nei salotti che hanno perso il contatto con la realtà. Non lo dico riguardo a Lia Quartapelle, lo dico come concetto in generale. Se una ragazza che viene da un quartiere popolare, che scala dal basso la leadership fino ad arrivare a essere la prima presidente del Consiglio donna, è la leader della destra, dovremmo porci qualche domanda sul nostro modo di essere. Quella di Giorgia Meloni è una storia antropologicamente di sinistra ma collocata a destra. Come mai una parte della società che noi dovremmo rappresentare si riconosce in lei?».
Il futuro del Pd lo vede in un doppio ossimoro: «Entrare fuori, ovvero andare a fare politica fuori dalle istituzioni e dal partito, amalgamarsi con il popolo. Per esempio, siccome nel quartiere dove vivo io, lontano dal centro del Municipio, non c’è un circolo del Pd, per discutere dopo il voto ci siamo riuniti in un bar. E poi, uscire dentro, cioè azzerare le correnti non come contributo di idee ma come pure filiere di potere, esaltando invece la libertà del singolo di contribuire con le sue idee senza calcolare le sue convenienze in termini di potere, smettendola di guardare il nostro ombelico».
Il prossimo 11 novembre, Antonella Melito presenterà a Roma l’ultimo libro di Goffredo Bettini, «A sinistra. Da capo», con Giuseppe Conte e Andrea Orlando. Un evento che viene interpretata come la nascita della corrente «filocontiana» del Pd. Definizione che la giovane consigliera respinge: «È anche a questo che mi riferisco quando dico che occorre uscire da certe logiche. Non è la nascita di una corrente, ma una discussione su cosa deve essere la sinistra, sulla base delle idee di un dirigente che le ha sempre espresse liberamente. Non si tratta di fare una sommatoria ma se oggi vogliamo parlare di sinistra dialogare anche con Conte è necessario. Qui nel Lazio, senza un’alleanza larga consegneremo la regione alla destra. E la responsabilità sarà di chi proporrà candidature solitarie».
(Secondo di una serie di articoli)