Cominciamo da: io questo articolo non lo sto scrivendo. Io sono contraria a fare di gente cui non si è finito di sviluppare il cervello materia di critica culturale, perfino quando quella stessa gente fa di tutto per candidarsi al ruolo.
E sì, lo so che la storia della cultura è piena di bambini prodigio, ma la corteccia prefrontale finisce di formarsi a venticinque anni e, quando iniziò a girare Quarto potere, Orson Welles li aveva compiuti da sette settimane. E, se vi chiedo quattro titoli di opere di Mozart, scommetto un soldino che mi citerete quelle che scrisse tra i trenta e i trentacinque: persino i bambini prodigio diventano più prodigi quando smettono d’essere bambini.
Dunque è una settimana che i giornali italiani si occupano di una ventitreenne laureata in medicina. Il perché è un mistero misterioso, o forse contiene qualche indizio di carattere italiano.
Della laureata non farò il nome, giacché ho delle regole etiche meno bislacche di quelle dei giornali italiani, che pixelano la faccia a bambini di un anno uguali a tutti gli altri bambini di un anno per renderli irriconoscibili, ma gli sembra del tutto normale che tra dieci anni un’adulta abbia come primo risultato di Google le scemissime polemiche di quando si laureò senza che le si fosse finito di formare il cervello; oltretutto non è di lei che voglio parlare (ma chi se ne frega di quando si è laureata una tizia sconosciuta), ma del carattere italiano.
Degli italiani che da giorni ne discutono sui social, sempre precisandoci loro a quanti anni si sono laureati e con che voto, giacché se negli ultimi quindici o trent’anni non hai combinato granché è consolatorio sapere che hai preso centodieci e lode e sei l’ennesima conferma che all’università italiana può prendere tutti trenta anche l’ultimo degli inetti.
Degli italiani che ci spiegano che è un problema di pari opportunità: questa tizia s’è laureata con un anno d’anticipo perché è ricca, i poveri non se lo possono permettere; dimostrando così di non avere la più pallida idea delle priorità dei ricchi né di quelle dei poveri. Ogni tanto ripenso agli appartamenti di cui sarei proprietaria se quei soldi i miei genitori non li avessero dovuti buttare in scuole per asini ricchi che facessero di me una ciuccia scolarizzata invece che la gemella di Mowgli: se c’è una cosa che ti permette di andare male a scuola, o di restare dieci anni fuori corso all’università, è l’essere benestante. Mentre i poveri si sbrigano a dare gli esami, perché i genitori certo non possono mantenerli all’università più a lungo del necessario, o perché se non danno gli esami per tempo la loro borsa di studio viene revocata.
Degli italiani che giurano sui social d’essere stati compagni di corso della laureata prematura, e credete a me era proprio una stronza, credete a me era proprio raccomandata, credete a me c’è del marcio in questa storia, credete a me che sono genio incompreso ma vengo sempre superato dai raccomandati. Una delle caratteristiche italiane più note, la raccomandazione, è un’invenzione di fantasia: chissà chi è stato il primo che ha addebitato il proprio insuccesso all’altrui raccomandazione, invece che assumersi la responsabilità della propria mediocrità. Raccomandati (così come evasori fiscali) son sempre gli altri.
Ma i migliori sono gli italiani che ci spiegano che la storia di questa ragazza viene raccontata per fomentare la competitività feroce che serpeggia in questa derelitta nazione. In Italia. Forse il paese meno competitivo del pianeta. In gara con la Francia, diciamo, ma non con molti altri.
Nel 2010 uscì un libro di Claudio Giunta sul Giappone, Il paese più stupido del mondo. Se vi accadesse di leggerlo in ritardo, com’è capitato a me che l’ho letto quest’anno, trovereste che i giapponesi infantili e intenti a fotografare tutto quanto tutto il tempo che Giunta osservava sconcertato nel 2010 sono uguali precisi agli italiani del 2022. O quasi: abbiamo preso la parte stupida e lasciato a loro la parte competitiva e dignitosa. Italiani che fotografano cose ne abbiamo a frotte, italiani che s’ammazzano se sbagliano qualcosa sul lavoro non pervenuti.
Ah, certo, tu vuoi che la gente si ammazzi, diranno i mirabili comprenditori di testo diplomati alle elementari migliori del mondo. Forse è ipotizzabile una via di mezzo tra il considerare un disonore per cui togliersi la vita un errore compiuto sul lavoro, e la tipica risposta italiana a qualunque assenza di competenza e professionalità: eh, vabbè, succede.
Nel 2014, in una puntata di Comedians in cars getting coffee, Jerry Seinfeld e Tina Fey vanno da Dominique Ansel, pasticciere francese che a New York ha inventato il cronut, un croissant fritto per cui la gente (me compresa) fa la fila davanti a una pasticceria di Soho prima dell’alba. Giacché a una cert’ora i cronut finiscono, e o l’hai preso o hai perso l’occasione. È il principio dei beni di lusso: l’edizione limitata, la competizione per entrarne in possesso. Ma è anche una buona metafora delle società competitive e di quelle che proprio no.
Tina Fey assaggia il croissant fritto e poi chiede: e adesso cosa succederà, aprirà duecento negozi di cronut in giro per l’America? Seinfeld risponde: è quel che farebbe un americano. E lei conclude: ma è francese, quindi farà settanta settimane di vacanza e mai più un cronut.
In Italia abbiamo inventato l’estate, facciamo tre mesi di vacanze, i docenti si offendono se qualcuno insinua che una settimana lavorativa di diciotto ore non sia proprio la miniera, chiunque abbia un ristorante ha centinaia di storie di ragazzi che vanno a fare colloqui per l’assunzione e poi dicono che no, loro il weekend e la sera mica lavorano (chissà quando pensano si vada al ristorante), qualunque cialtrone in qualunque ufficio risponde «eh vabbè succede» (una frase che dovremmo mettere come motto nazionale sulla bandiera) a qualunque nota su un suo errore: siamo il paese meno competitivo del mondo, ma i poveri puccettoni nostri si sentono schiacciati dall’esempio distorto della ventitreenne che non ci ha messo ventiquattr’anni a laurearsi.
Gli adulti preoccupati per i modelli comportamentali troppo efficienti sono gli stessi che difendono le altrettanto giovani altrettanto senza lobi frontali che vanno a versare la zuppa sui quadri, e poi danno interviste dicendo che grazie a loro si parla del cambiamento climatico (no, puccettona: si parla di Van Gogh, e di quant’è lasca la sicurezza nei musei, e di quanto sono scemi i militanti ecologisti).
Dicono i pettegoli che ormai la ragazza col lancio del minestrone di perla sia una trovata di marketing: dove possiamo trovare due cretine che versino una passata di pomodoro su un nostro quadro, che è pubblicità gratis per il museo? Se fosse vero, sarebbe un raro caso d’impresa giovanile col giusto target: la scemenza degli adulti, e la loro pretesa di considerare interlocutrice gente cui non s’è finito di formare il cervello.