Eurizon Capital Sgr è stata la prima società italiana di gestione del risparmio ad annunciare, a ottobre, gli impegni stabiliti dalla Net Zero Asset Managers Initiative (Nzami). La società capofila della divisione asset management del Gruppo Intesa Sanpaolo prevede obiettivi finalizzati a raggiungere entro il 2050 zero emissioni nette di gas serra dei patrimoni gestiti. L’adesione da parte di Eurizon, assieme alle altre società di asset management di Intesa Sanpaolo, rafforza l’impegno del Gruppo di azzerare entro il 2050 le proprie emissioni nette e quelle relative ai portafogli prestiti e investimenti.
In questo contesto si parla di investimenti Esg, acronimo di Environmental, Social and Governance, ossia investimenti che promuovono caratteristiche ambientali e/o sociali e pratiche di buon governo societario, o in grado di creare impatti positivi per le società e i contesti in cui le aziende operano. Attraverso la sua attività di stewardship, Eurizon fa engagement, quindi dialoga, con le società partecipate sempre più riguardo alle tematiche legate alla sostenibilità. In occasione della VII edizione del Salone Sri, tenutosi il 14 e il 15 novembre presso Palazzo delle Stelline, a Milano, Linkiesta ha discusso dell’impegno di Eurizon negli investimenti sostenibili con Federica Calvetti, responsabile Esg della società.
Calvetti, qual è il ruolo di Eurizon negli investimenti Esg?
Il nostro ruolo è duplice. Dal punto di vista del sistema macroeconomico, Eurizon ha una posizione di leadership nell’industria del risparmio gestito in Italia. Il nostro settore ha un importante compito: fare in modo che sempre più capitali confluiscano alle aziende a supporto della transizione energetica. Buona parte del fabbisogno finanziario necessario per realizzare la transizione energetica non sarà coperto da fonti pubbliche. Ovviamente, poi, abbiamo un dovere fiduciario nei confronti dei nostri clienti ed investitori, che deve prendere in considerazione a tutto tondo la dimensione di opportunità e di rischio degli investimenti, inclusa la sostenibilità. L’interesse del cliente si fa anche considerando il profilo Esg degli investimenti.
Quindi c’è un vantaggio economico per gli investitori del settore Esg.
Il nostro purpose aziendale è: «Investire nel tuo futuro è la nostra passione». Tramite la gestione del risparmio siamo vicini ai nostri clienti nel costruire un futuro prospero, guardando a un orizzonte di medio termine.
Si riesce a farlo? A progettare sul medio termine?
Sono moltissime le variabili da considerare, ma parlando con le aziende, ovvero nella fase di engagement, è evidente che il management delle società è prevalentemente orientato a pensare nel medio termine, su orizzonti temporali di cinque o dieci anni, compatibili ai rispettivi piani industriali. Serve individuare oggi quali sono quelle realtà che in tale periodo potranno generare valore.
Parliamo sia di aziende quotate che non quotate?
La realtà di Eurizon Capital Sgr investe prevalentemente in società quotate. Una parte dei nostri asset, in particolare attraverso la controllata Eurizon Capital Real Asset, riguarda poi i private market dove si investe anche in società non quotate. È tutt’ora molto diverso parlare di sostenibilità per il quotato rispetto al non quotato. Per il non quotato le difficoltà sono ancora maggiori: mancano gli standard, e l’investimento richiesto può essere molto significativo.
In Eurizon c’è un progetto in questo senso?
Come dicevo, Eurizon Capital Real Assets è la società controllata da Eurizon che si occupa degli investimenti alternativi nei mercati privati e anche in questi contesti è molto importante dialogare con le società per spronarle ad adottare modelli sempre più sostenibili, dando di fatto delle linee guida per estrarre valore.
In dettaglio, in cosa consiste l’attività di stewardship svolta da Eurizon con le aziende?
Essere steward significa assumere un ruolo di investitore responsabile vigilando e facendosi parte attiva verso gli emittenti. Lo facciamo con l’attività di engagement, svolta costantemente durante l’anno, e con l’attività di voto, solitamente concentrata nella prima metà dell’anno, quando avviene l’approvazione dei bilanci annuali. Se riteniamo di non avere tutti gli elementi per poter esprimere il nostro voto, ingaggiamo la società per un chiarimento. Spesso questo avviene su temi di governance, quando ad esempio vengono apportate modifiche ai piani di remunerazione: dialogando riusciamo a esprimere un voto informato. Per quanto riguarda l’engagement, si distinguono le tematiche finanziarie da quelle che riguardano il profilo Esg dell’emittente, in cui entra in gioco il team di cui faccio parte. A seconda della tematica, sia essa ambientale, sociale, o di governance, sviluppiamo i nostri dialoghi sui temi specifici con il management.
Facciamo un esempio pratico.
Nella nostra ambizione di diventare una società net-zero entro il 2050, dobbiamo capire la natura delle attività delle società nei nostri portafogli relativamente al settore dei combustibili fossili. Se una società fa più del 25 per cento delle sue revenues dal carbone termico, applichiamo delle esclusioni e non possiamo investire. Ma ciò non esclude il monitoraggio delle realtà al di sotto delle soglie di esclusione, in modo da controllare che perseguano un percorso virtuoso che permetta loro di ridurre gradualmente le loro emissioni e non si indirizzino al contrario verso il livello del 25 per cento. Gli engagement di maggior successo sono quelli in cui la tematica è circoscritta. Un dialogo a 360° sulla sostenibilità è difficile, perché è anche difficile riunire contemporaneamente da parte delle società persone del business, della sostenibilità e della finanza. È molto meglio focalizzare la tematica e ingaggiare periodicamente la società. Nell’ultimo anno, più della metà dei nostri engagement ha riguardato tematiche Esg.
In quali percentuali? C’è più Environmental, Societial o Governance?
Molta più governance. Politiche di remunerazione, nomine, diversity nel board, tax compliance, procedure interne di anti-money laundering. Management e struttura del capitale, ovvero la spina dorsale del business. Poi c’è la tematica ambientale, Environmental, su cui da quattro o cinque anni c’è una discreta consapevolezza, che non è però uguale nelle diverse parti del mondo: in Europa c’è molta più competenza rispetto agli Stati Uniti o all’Asia, anche se la parte extra-Ue sta crescendo parecchio. Al momento del voto su tali tematiche, però, come investitore istituzionale abbiamo successo circa nel trenta per cento dei casi, mentre sulla governance siamo quasi al novanta. Parliamo di votazioni su aziende che operano a livello globale a cui partecipano i big del risparmio gestito: dovremmo remare tutti nella stessa direzione, invece è evidente che non è così. Per quanto riguarda la tematica Social invece, siamo ancora molto lontani.
Cosa manca?
Sul tema sociale, spesso si dibatte se chiedere determinati interventi alle società sia fondamentale o necessario; sui temi sociali, le richieste degli azionisti sono per lo più volte a richiedere innanzitutto una maggior trasparenza. Un esempio pratico: spesso all’ordine del giorno delle assemblee c’è la richiesta alla società, da parte di qualche suo shareholder, di pubblicare report di audit sulla propria supply chain oppure sul fatto che venga svolta attività di formazione ai propri dipendenti su certe tematiche, come per esempio la discriminazione. In teoria, tutti dovrebbero votare a favore. In realtà, sulla parte Social raggiungiamo circa il dieci per cento di efficacia. Ciò significa che, nel 90 per cento dei casi, il mercato pensa diversamente o non pensa che sia una tematica importante nei confronti della società. Abbiamo anche iniziato a parlare di tassonomia sociale, di cui è stata pubblicata una prima bozza, ma le tempistiche sono incerte. Solo di recente abbiamo potuto vedere quali sono gli indicatori di principale impatto avverso (cd. Pai), un punto di svolta per l’industria.
Cosa sono questi indicatori?
Si tratta di indicatori quantitativi o qualitativi che il regolatore chiede di riportare, sia a livello di entità sia sui prodotti, che includono anche tematiche sociali come il gender pay-gap, la diversity nel board, o eventuali violazioni. Ma c’è ancora tanto lavoro da fare, e questo dà una misura di quanto sia difficile, anche dal punto di vista dell’investitore, pensare a dei prodotti che sviluppino concretamente la tematica sociale. Tuttavia. c’è molta più consapevolezza su quanto le tematiche Esg siano interconnesse. Ci si rende sempre più conto del fatto che l’investimento sulla transizione energetica non possa prescindere da quello sulla comunità sociale. Partendo da questi presupposti i nostri prodotti, i nostri investimenti, la nostra filosofia, il modo in cui arriveremo a net-zero deve per forza passare anche dalla dimensione social. Al momento, però, questa dimensione è quella meno presidiata dal settore.
Gli Esg sono una realtà in crescita o una bolla destinata a scomparire?
Quest’anno, nel contesto di quelle che sono state le dinamiche di mercato, ci si è chiesti spesso se abbia senso parlare di sostenibilità con la stessa urgenza. Io mi sono data una risposta molto fattuale: mai, nella storia, ci siamo ritrovati in un momento come questo, dove i capitali provenienti dalle istituzioni a modelli di business in trasformazione, e al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione, sono stati così alti. In Europa il budget è di due trilioni di euro, il cui trenta per cento è destinato a obiettivi di raggiungimento della decarbonizzazione e alla realizzazione degli impegni climatici. Il Next Generation Eu finanzierà green bond per il trenta per cento dei suoi circa 800 miliardi. Rispetto alla crisi energetica, il piano del RePower Eu è arrivato alla velocità della luce, ed è chiarissima la volontà di arrivare al 45 per cento di approvvigionamento da fonti rinnovabili entro il 2030, che è tra sette anni. Per la prima volta, poi, l’amministrazione Biden ha passato un Inflation reduction act da 369 miliardi, definito dalle società americane con cui parliamo come un game-changer, perché gli investimenti che questa legislazione è in grado di attrarre su nuove tecnologie non si sono mai visti prima. Il provvedimento promuove un investimento continuo per rendere le tecnologie di carbon capture una realtà, mentre la Security exchange commission sta facendo dei passi avanti sul risparmio gestito nella sostenibilità. La Cina, poi, ha annunciato di arrivare al picco delle emissioni entro il 2030: tra sette anni, le sue emissioni scenderanno progressivamente con l’obiettivo di arrivare a net-zero entro il 2060. Non è quindi un fenomeno destinato a sparire: non si è mai visto un ammontare di capitali di questa dimensione. I prossimi tre quattro anni vedranno una spinta forte dal mondo corporate, dall’innovazione, e forse vedremo un po’ più di concerto a livello globale.
Come si traduce concretamente l’impegno di arrivare a net-zero nel 2050, nel settore dell’asset management?
Il nostro business è la gestione del risparmio, quindi il nostro ruolo è quello di promuovere la decarbonizzazione della società affinché queste siano spronate e incentivate a realizzarla. Molti scettici sul programma net-zero sostengono che per arrivare agli obiettivi sia sufficiente cambiare la propria allocazione di portafogli: basta non investire in certe società maggiormente inquinanti, e le emissioni scendono. Non è questo lo scopo. Lo scopo è innanzitutto quello di fare una valutazione sui propri portafogli per identificare una gli assets che possono essere gestiti in linea con lo scenario net-zero. Si tratta di modellare un allineamento progressivo al 2050, quindi su un orizzonte molto lungo, per cui i dati non sono sempre disponibili. Lo sforzo importante è quello di sensibilizzazione, che si traduce in engagement. Sproniamo le società a identificare target che siano validati da modelli scientifici di decarbonizzazione. Non basta che una società si impegni per esempio a decarbonizzare del venti percento entro un determinato orizzonte: come Sgr, vogliamo sapere che quel target è scientificamente sufficiente nel contesto del settore di riferimento. In questo senso, l’approccio è costruttivo: Quando tutti i 292 asset managers firmatari della net-zero initiative chiedono che una società si muova in una certa direzione, si può essere sicuri che questa abbia un po’ di pressione in tal senso. Innanzitutto abbiamo un obiettivo di decarbonizzazione al 2030, anno per cui l’Ipcc ha stabilito che per contenere il rialzo delle temperature entro 1,5° rispetto all’era preindustriale bisogna decarbonizzare almeno del 50 per cento. Ci arriveremo solo e soltanto se avremo delle società nel portafogli sufficientemente committed e con un management sufficientemente sensibile che possa capire che questa non solo è un’opportunità per l’investitore, ma anche per la società stessa. Decarbonizzare significa avere modelli più efficienti, innovativi, filiere produttive migliori: ciò non può non tradursi in un vantaggio competitivo.
È possibile far coincidere interessi dei clienti e obiettivi di sostenibilità?
Le due cose già coincidono. Sostenibilità significa ricercare investimenti resilienti, di successo, che generano cash flow. È ciò che vuole anche l’investitore. Per me l’obiettivo di sostenibilità e ricerca di rendimento da parte dell’investitore sono la stessa cosa.
Quindi un capitalismo sostenibile esiste.
L’attuale impianto istituzionale, specialmente in Europa, è stato pensato per spronare l’investimento privato e allo stesso tempo permettere il di ottenere un rendimento. In uno scenario generalmente incerto, contare su investimenti pubblici, attraverso il budget europeo, permette di mitigare in parte anche il rischio tecnologico che deriva da finanziare piani di sviluppo incentrati su tecnologie che oggi non sono ancora disponibili. Il modello capitalistico, in questo senso, trova piena realizzazione: si hanno le condizioni ideali per poter investire, per poter direzionare i capitali esattamente dove si stanno indirizzando anche i flussi di capitali pubblici.