Diario di un’ucrainaLa guerra dei russi ci ha reso sporchi, grigi e malconci, ma aspettiamo ostinati la vittoria

La scrittrice in passato era sfollata dal Donbas, ma stavolta non ha lasciato Kyjiv e se ora le chiedono «come stai, mobiletto?» invece di offendersi a morte risponde «reggo»

LaPresse

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In una Makariv liberata dagli occupanti ci sono tante case distrutte. Sulla soglia di una di queste case c’è un cane. È di razza alabai. È grigio, sporco, malconcio, affamato. Prende il cibo e l’acqua dai volontari. Si lascia accarezzare. Però non segue nessuno. Non si schioda dal suo posto. Guarda negli occhi della gente che passa. Guarda oltre quelli che si avvicinano. Aspetta i suoi. Aspetta ostinato. Forse i suoi non ci sono più. Forse aspetta invano, o forse non è poi così invano. Lui mangia, lui beve. Solo che non segue nessuno. Lui crede che tutti quelli a cui vuole bene torneranno. Prima o poi. I volontari lo chiamano “il nostro Hachi”.

Oggi sono tornati i nostri vicini di pianerottolo. Li sentiamo oltre la parete. Sembra che quella parete tra di noi non ci sia neanche. Le nostre orecchie hanno imparato i nuovi suoni dal cielo ancora prima dell’arrivo delle sirene. Che cosa vuoi che sia allora quella parete?

Oggi il confine con la Polonia lo hanno attraversato 24mila persone. Stanno tornando a casa. Loro qua sono molto attesi, anche se non c’è più nessuno ad aspettarli.

Mi sembra che tutti noi siamo degli “Hachi”. Nelle città distrutte e desolate siamo sporchi, grigi e malconci e aspettiamo ostinati il senso della nostra vita. Stiamo aspettando i nostri soldati, i vicini di casa, gli amici. Stiamo aspettando la vittoria e non ci schiodiamo da questo posto anche se sarà difficile e lunga. Solo che al posto del cibo e dell’acqua a noi servono armi.

Lo chiamo l’infuso concentrato della tragedia. Si tratta di un corpo ucraino, che sa già dove fa male, poiché fa male ovunque. Sentiamo ogni movimento delle auto bucate dalle pallottole nei corridoi umanitari russi, il tricolore russo disegnato sui cartelli all’ingresso in città, le fosse comuni sui territori occupati che si vedono sulle foto dei satelliti. Il collo non si muove, gli occhi sono secchi, le orecchie non sentono, la schiena non si piega…

Ed è proprio sulla schiena, che non vuole piegarsi, che sono scritti tutti i nomi e i toponimi. Sono tatuati sulla schiena che non vuole piegarsi. Su quella schiena che non vuole piegarsi ci sono la rabbia, la furia, il dolore e le armi. Oltre quella schiena c’è l’infuso della tragedia. Se farai un movimento, i cristalli tradiranno la loro fragilità. Le lacrime scioglieranno tutto, le orecchie sentiranno tutto, il collo riacquisterà la propria forza. Ma la schiena non vuole piegarsi.

L’infuso concentrato della tragedia sarà sul nostro tavolo ancora per tanto tempo, come lo scudo e la spada.

Nel dizionario internazionale ci sono delle novità: il lemma “russo” ora significherà la stessa cosa che “nazista”. La parola “Ucraina” però potrebbe essere rivista come una versione nuova della storia di Davide o Golia. Per via dell’Ucraina questa parabola non sembrerà più così esagerata.

Da allora il nostro incubo più grande e senza fine sono le torture, inflitte ai bambini davanti ai nostri occhi. Non sono stati i russi a inventarle, ma sono stati loro a perfezionarle: bambini stuprati con i denti tolti, le unghie strappate, le braccia e le gambe spezzate. I bambini ammazzati sono il loro marchio di qualità, per il quale l’intero battaglione riceve le onorificenze militari.

Ogni volta che incontri un russo devi tenere in mente che lui, suo figlio, sua figlia, il suo parente, il suo vicino, il suo collega – tutti loro, insieme o separatamente — tortureranno i bambini. La questione di un russo che abita in Europa non cambia niente.

Come fare allora? Il piano d’azione c’è. Anzi sono due. E tutti e due sono imperfetti. Il primo consiste nel non avere i russi da nessuna parte. Il secondo nell’avere le armi. Nelle condizioni di necessità un’arma puntata contro un russo potrebbe salvare dal non essere torturati a morte.

Mettere in atto il primo piano è difficile, per via dell’indifferenza dell’anima del mondo moderno. È difficile convincere gli europei non stuprati che i loro figli saranno i prossimi. La difficoltà del secondo piano sta nel distribuire le armi tra i bambini per dar loro la possibilità di morire in fretta ed evitare le torture.

Tutti i territori occupati sono campi di concentramento. Tutte le persone che ci si sono trovate dentro sono condannate. Oggi, domani o dopodomani. Sono condannate.

Anche nella tranquillità apparente di Donets’k e Kherson, rimangono tranquille solo le case ancora non distrutte, che verranno comunque distrutte alla prima necessità.

Le persone sono vive solo perché non è stato ancora dato un ordine di ammazzarle o c’è ancora bisogno di tenerle in vita. Le donne non sono state stuprate non perché non sono uscite in strada, ma perché gli animali non sono entrati nelle loro case. Ma per gli uomini la morte è già arrivata: vengono arruolati come carne da macello nell’esercito degli invasori. Non si può scappare. Se provi a scappare ti spareranno alla nuca o ti toglieranno le budella dal ventre.

È impossibile andare via. Ai posti di blocco nemici si gioca alla roulette russa, come dice il loro capo: piace, non piace… Se qualcuno non piace, un orco gli potrà fare qualsiasi cosa, e se qualcuna invece piace anche con lei faranno qualsiasi cosa.

Se nel 2014 ero diventata esperta nei suoni e nei segni delle “peonie”, dei “giacinti” e dei “tulipani”, ora sto imparando i nomi delle armi nuove e più moderne. Dubito che potrò applicare queste nozioni nella pratica. Però mi piacciono. E non soltanto a me.

C’è una vignetta che gira nei social, in cui un bambino e una bambina piccoli giocano nella sabbia. Lei lo guarda e gli chiede: «Come ti chiami?». E lui risponde: «Bayraktar. E tu?». « Io sono Javelina».

L’amica di Leopoli dice: «Ho paura. Solo ora ho iniziato ad avere paura. Penso che sarà Leopoli…». «In che senso “sarà Leopoli”? Certo che sarà Leopoli o avete deciso di chiamare la città diversamente?». « Ma no. Penso, che le armi nucleari tattiche verranno usate a Leopoli. E dopo?». « Ah, menomale. Non ti preoccupare, cara, hanno detto che verranno distrutti tutti i centri di comando. E dove sono? Esatto! A Kyjiv! A casa mia! ». « Non mi hai tranquillizzata per niente… Quindi che cosa facciamo?». « Ce ne freghiamo. Un po’ di fatalismo non farà male alla fiducia nel nostro esercito ». « E dove devo andarlo a cercare ’sto fatalismo?».

Nel nostro centro di volontariato c’è una signora della città di Popasna. Tranquilla, silenziosa, assente. Dice: «Ragazze, avete una fotocopiatrice qui? ». « Possiamo trovarla, per che cosa le serve? ». « Si potrebbe anche fare una foto con il telefono. Perché ce l’ho su un pezzo di carta… Ma dobbiamo cancellare tutte le foto dal telefono, perché, se si capita in mano a quelli, loro, per prima cosa, guardano i telefoni. Il pezzo di carta puoi nasconderlo nel reggiseno o nelle mutande… ». « Allora fotocopiamolo! ». « Però fatelo vedere a tutti, non dimenticatelo. Un terzo del nostro Paese ormai è una Popasna. Ma io di questo foglio ne ho una sola copia ».

Sul pezzo di carta c’è la lista dei morti. Accanto ad alcuni nomi ci sono le date e gli indirizzi. Accanto ad altri solo le date e i nomi. In alcuni casi non ci sono neppure i nomi, solo “una donna”, “un uomo vecchio”, “una ragazza”.

« Erano ancora lì, mentre io lasciavo la città. Non a Popasna, ma sulla strada. Prendevo nota di quelli che ho visto. Non ho visto tutti, ma alcuni sì… Sono sotto la riga. Sopra la riga ci sono i nostri… ».

Perché sto scrivendo questo diario? Che senso ha, se l’unico senso che può esserci per noi, per quelli non al fronte, è fare le mappe con dei punti con i nostri morti?

*Olena Stiazhkina è una storica e scrittrice, insegna all’Università di Donec’k (che ha poi trasferito la sua sede a Vinnycia, in seguito all’occupazione del Donbas nel 2014). È autrice del romanzo La morte del leone Sesil aveva un senso, scritto a metà in russo e a metà in ucraino, con una scelta-manifesto che mostra la sua decisione di passare dal russo all’ucraino come lingua di scrittura.

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