Si gioca intorno alla parola «guerra» la partita diplomatica più importante per l’Unione europea al G20 di Bali. Includerla nel comunicato finale sarebbe considerato una vittoria, mentre riferimenti più «morbidi» e vaghi al conflitto dimostrerebbero che la persuasione dell’Unione e dei suoi alleati occidentali non è stata efficace abbastanza.
In pressing sulla Cina
L’obiettivo principale della delegazione europea è infatti una ferma condanna dell’invasione russa dell’Ucraina: risultato difficile da ottenere già in partenza visto che al consesso delle potenze mondiali partecipa proprio la Russia, rappresentata dal ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in vece di Vladimir Putin.
Non a caso, prima dell’apertura ufficiale dei lavori, il presidente indonesiano Joko Widodo ha chiesto alla Commissione europea e ai Paesi del G7 (Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Giappone, più i tre membri dell’Ue) «supporto e flessibilità» in vista della dichiarazione finale.
Perché il summit produca un testo concordato, fa capire Widodo, è necessario che il linguaggio utilizzato sia molto equilibrato. Di certo non potrà assomigliare a quello perentorio dell’ultimo incontro G7, quando i ministri delle prime sette economie mondiali dedicarono il primo paragrafo alla guerra, chiedendo «il ritiro di tutte le forze militari russe» e menzionando apertamente «attacchi contro civili ucraini e infrastrutture civili».
Una delle possibilità che circoano parla di «difesa del diritto internazionale», locuzione che si presta a molteplici interpretazioni. Come spiegano a Linkiesta fonti comunitarie coinvolte nel negoziato sulla dichiarazione, non tutti i Paesi sono disposti a menzionare il termine «guerra». Ma al tempo stesso, i leader cercheranno di evitare una dichiarazione «monca», cioè con una nota che segnali il dissenso di alcuni dei partecipanti.
Al di là delle parole utilizzate, per l’Unione sarebbe importante convincere quei Paesi del G20 che al momento sembrano recalcitranti a condannare pienamente l’invasione a far seguire azioni concrete nei confronti della Russia: Arabia Saudita, Brasile, India, e soprattutto Cina.
Il momento più significativo del summit per l’Ue sarà quindi l’incontro tra il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e quello cinese Xi Jinping, previsto a margine della prima giornata del summit. Nulla di comparabile all’atteso bilaterale tra Xi Jinping e il presidente statunitense Joe Biden, da molti considerato l’epicentro di tutta la riunione dei leader delle economie più avanzate del pianeta.
Per circostanze esterne e demeriti interni, il ruolo che l’Europa si appresta a giocare a Bali appare invece piuttosto limitato. Finora il governo di Pechino ha condannato le allusioni russe a un eventuale utilizzo di armi nucleari, ma non si è mai spinto oltre.
Dall’inizio del conflitto la postura cinese rimane ambigua: astensione nella risoluzione Onu di inizio marzo che condannava l’invasione dell’Ucraina, auspici generici di una soluzione pacifica, critica alle sanzioni occidentali. Tutte mosse che permettono a Xi Jinping di non schierarsi apertamente né a sostegno né contro l’iniziativa di Mosca, e di perseguire allo stesso tempo la possibilità di sfruttare la delicata situazione a suo vantaggio.
Divisi alla meta
Un sostanziale fallimento è stato, ad esempio, il summit europeo e il presidente cinese organizzato in videoconferenza lo scorso aprile. Il «dialogo franco e aperto» rivendicato da Michel nell’occasione fu un modo molto diplomatico di dire che le posizioni restavano distanti, e infatti l’incontro a distanza non produsse nemmeno una dichiarazione congiunta.
A complicare il nuovo tentativo europeo ci sono i rapporti sempre più complicati tra i vertici delle istituzioni dell’Ue, svelati da una recente indagine del quotidiano Politico.
Che la relazione tra Charles Michel e Ursula von der Leyen non fosse idilliaca è cosa nota dai tempi del cosiddetto Sofagate, ma sembra che le cose siano via via peggiorate, tanto che nel G20 di Bali le agende dei presidenti di Consiglio e Commissione sono state organizzate in modo da evitare ogni sovrapposizione.
Al cruciale incontro con Xi Jinping, ad esempio, von der Leyen non è stata invitata: secondo Politico perché la presidente avrebbe messo il veto alla partecipazione di Michel a un altro importante meeting, quello con il primo ministro indiano Narendra Modi al G7 di giugno.
Ua sorta di «competizione» tra le due istituzioni è piuttosto naturale nelle dinamiche della politica europea, in cui alla Commissione spetta l’iniziativa legislativa e al Consiglio la discussione e l’approvazione (insieme al Parlamento) di direttive e regolamenti. Mentre l’esecutivo comunitario spinge per fornire strumenti comuni europei agli Stati membri, il Consiglio svolge una funzione mediatrice tra gli interessi dei governi nazionali e i dissidi, sempre contenuti in accurate cornici diplomatiche, non sono rari.
Quelli recenti, però, sembrano difficili da superare. L’ultimo episodio è una lettera dai toni decisi in cui Michel chiede a von der Leyen di presentare una proposta di price cap sul gas, argomento sul quale è in corso una lunga disputa a livello comunitario: la maggior parte degli Stati europei vorrebbero venisse applicato un tetto a tutte le operazioni di mercato che riguardano il combustibile, la Commissione sembra riluttante a procedere in questo senso e ha finora preso tempo tra studi, analisi d’impatto e documenti di discussione informali.
Il dialogo tra i due presidenti e tra i rispettivi staff, secondo le testimonianze dei funzionari raccolte da Politico, è praticamente inesistente: cosa che sicuramente indebolisce la posizione dell’Unione Europea nei consessi internazionali, a cominciare proprio dal G20. Difficile parlare in maniera convincente agli altri quando non si riesce a farlo in casa propria.