La chiave sono gli anni Novanta, quelli in cui prima viene eletto membro della Royal Academy, e poi la sua iconica casa-studio al 26 Manchester Street, nel cuore di Marylebone, a Londra, distrutta da un terribile incendio che manda in fumo anche gran parte del suo lavoro, nonché la sua salute fisica e mentale. È negli anni Novanta che Patrick Procktor viene dimenticato, solo e afflitto dall’alcolismo in modo irreparabile, troppo legato a un mondo dell’arte e a una scena culturale che ormai non ci sono più, lontani e anacronistici. È in quel momento che il suo nome scompare dalla storia e dalla memoria, in un oblio che lo condurrà tragicamente alla morte nel 2003.
Ma prima del tracollo, Procktor è stato una delle figure più affascinanti ed enigmatiche del Regno Unito, che con il suo pennello ha ritratto i protagonisti di tre decadi di storia britannica, dai nobili alle pop star, dai figli a giovani efebi protagonisti di fugaci incontri, dai colleghi artisti ai grandi amori. E proprio gli anni dal 1962 al 1987 sono quelli protagonisti di A View From a Window, la grande retrospettiva a cura di Tommaso Pasquali che fa tornare l’artista a Bologna, a Palazzo Bentivoglio, a cinquant’anni di distanza dalla personale a Palazzo Galvani organizzata grazie alla visione di Hélène de Franchis, fondatrice dell’influente galleria veronese Studio la Città. Una sessantina di opere riunite per la prima volta a riaccendere i riflettori su una vicenda artistica e umana estrema e magnetica, che si snoda tra divani verdi e pennelli, tra pennellate di colore e supporti che entrano a far parte della figurazione, tra vasi di Picasso e foto di Cecil Beaton.
Controverso e contraddittorio, dal tratto e dalla presenza inconfondibili (era alto quasi due metri), Procktor, un dandy amante del camp, padre di famiglia e apertamente omosessuale, rappresentava alla perfezione la quintessenza di un certo fare e sentire squisitamente britannico, trasformando in una costellazione complessa i punti folgoranti dell’eredità di Oscar Wilde, l’intellettualismo di Bloomsbury, gli eccessi della Swinging London, il peculiare senso di famiglia dell’Inghilterra degli anni Settanta, e la complessità degli anni Ottanta per le comunità omosessuali, arrestando la propria corsa quando la Yba diventava l’icona di una nuova rivoluzione culturale che si giocava tra 10 Downing Street e il Good Mixer Pub di Camden Town, in quella Cool Britannia così lontana da lui, ma così profondamente influenzata anche dalla sua carriera.
Nato nel 1936 a Dublino, ma trasferitosi a Londra ancora molto piccolo, Procktor si iscrive alla Slade School of Fine Art nel 1958, dopo essere stato arruolato in marina e aver lavorato come interprete – e spia – in Russia. È negli anni della scuola d’arte che stringe il legame più importante della sua carriera con uno studente del Royal College of Art: David Hockney. «Non potevi parlare di uno senza menzionare l’altro. Erano Castore e Polluce, i gemelli dandy del mondo dell’arte», spiega il critico John McEwen in una biografia a cura del più grande studioso di Procktor, Ian Massey.
Ma le carriere dei due artisti non potranno essere più diverse. Se Hockney guarderà all’Occidente, agli Stati Uniti, e soprattutto alla California, gli interessi di Procktor si dirigeranno, invece, verso est, verso il medio e l’estremo oriente. Se Hockney si imporrà nel mercato cercando gallerie sempre più importanti e influenti, Procktor lavorerà, invece, per tutta la sua carriera con la Redfern Gallery, la stessa in cui debutta nel 1962 e che tutt’ora rappresenta la sua opera. Entrambi votati alla figurazione, se gli acrilici di Hockney copriranno di colori piatti e accesi le grandi tele che faranno la storia della pop art britannica, i delicati acquerelli di Procktor funzioneranno per sottrazione, nei silenzi, nella trasparenza dei colori, nei vuoti dei fondi che affiorano nei bianchi a risparmio.
Dai pennelli di Procktor passa tutta la sua vita. I titoli delle sue opere portano i nomi e date di ciò che rappresentano, l’esistenza passa per la carta o per la tela con dediche, appunti, inside jokes che fanno prendere vita e anima ai soggetti, senza sovrastrutture e senza metafore – sono i giochi di parole a suggerire stati emotivi e di introspezione, come nel caso di uno dei migliori lavori esposti, “Eye Sea You (February 1969)”: un autoritratto, l’unico momento in cui a nostri occhi di spettatori non offre il suo punto di vista ma il suo sguardo, quasi celato dietro un monocromo, da cui spunta come in una caricatura, una vignetta umoristica.
Ma c’è un altro momento cruciale, inedito, offerto alla mostra di Palazzo Bentivoglio dall’allestimento magistralmente progettato da Davide Trabucco: un triangolo semiotico, un gioco di forze tra significato, significante e referente offerto dalla presenza dell’acquerello “Picasso Pots at Cecil Beaton’s (1 April 1968)”, dei due vasi di Picasso rappresentati, “Chouette Femme” (1951) e “Chouetton” (1952), e il ritratto fotografico di Procktor per eccellenza, scattato dall’amico Cecil Beaton “Patrick Procktor from Dublin – six foot five inches of talent (April 1967)”. Un cerchio magico, che racconta in tutta la sua grandezza la poetica di un maestro dell’arte che non bisogna più far soccombere al tempo.