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L’età dell’eccellenzaInnovazione e creatività, per restare competitivi conta il fattore umano

Ne hanno discusso Mauro Porcini (PepsiCo) e Roberto Verganti (Stockholm School of Economics) nel corso dell’incontro “L’innovazione necessaria. Come rimanere competitivi nell’età dell’eccellenza”, organizzato all’interno del ciclo “Sparks of Knowledge” di Badenoch + Clark

(Unsplash)

Il mondo del business sta cambiando radicalmente. Le barriere erette dalle grandi aziende cadono sotto la spinta della globalizzazione, delle tecnologie, dei social media e dell’e-commerce. E ora la pandemia da Covid-19 ha accelerato queste trasformazioni. Il risultato è che l’innovazione non rappresenta più un’opzione, ma un fattore di sopravvivenza per le aziende: o la si mette in atto o si rischia l’estinzione. Ma come si fa davvero innovazione?

È questo quello di cui hanno discusso Mauro Porcini, senior vice president e chief design officer PepsiCo, e Roberto Verganti, professor of leadership and innovation della Stockholm School of Economics, nel corso dell’incontro “L’innovazione necessaria. Come rimanere competitivi nell’età dell’eccellenza”, organizzato all’interno del ciclo “Sparks of Knowledge” di Badenoch + Clark. Guidati da Federico Fontana – head of Northern Italy del comparto Professional Recruitment di Badenoch + Clark e Spring Professional – i due esperti hanno analizzato un nuovo approccio all’innovazione human-centered, quello che Porcini descrive nel suo ultimo libro “L’età dell’eccellenza” (Il Saggiatore), dopo vent’anni di esperienza nelle multinazionali americane.

Nell’«età dell’eccellenza», dice Porcini, «non c’è più spazio per il conservatorismo o il conflitto». L’elemento chiave è invece il «fattore umano». «Non sopporto la parola “consumatore”. La più grande differenza è guardare le persone come esseri umani. Bisogna essere innamorati dell’idea di poter creare valore per le persone, voler rispondere ai loro bisogni».

Se all’inizio della sua carriera, il suo approccio «design driven» non era compreso dai leader delle aziende per cui lavorava, «oggi – nell’epoca in cui o crei eccellenza o qualcun altro lo fa per te – c’è bisogno di cambiare cultura in tutte le funzioni aziendali. E i designer sono ambasciatori di questa nuova cultura del guardare alle persone come esseri umani e non come consumatori».

In questa metamorfosi, i social media sicuramente hanno giocato un ruolo importante, aprendo discussioni su temi che hanno risvegliato anche le coscienze degli amministratori delegati di tutto il mondo. La «purpose», il valore e lo scopo di un brand, è diventata centrale. E questo trend è stato accelerato dalla pandemia, ma anche da fenomeni sociali come Black Lives Matter.

«È il momento giusto, perché c’è una autentica apertura dei leader verso una umanità più profonda anche nel mondo del business», afferma Verganti. «Molti leader hanno voglia di cambiare il mondo, e la pandemia ha dato un’ulteriore scossa, portando a un maggiore intreccio tra vita privata e business». Lo conferma anche Porcini: «Mi sono ritrovato a lavorare con leader che credono in modo sincero in questo nuovo approccio e cercano di cambiare le cose, sempre senza dimenticare il business». D’altronde, dice Verganti, «è impossibile non fare soldi se realizzi prodotti che rendono felici le persone».

Certo, il processo di innovazione non è semplice. Perché, come spiega Verganti, «l’innovazione non è tecnologia, ma dare senso alle cose». È prima di tutto, quindi, un cambiamento culturale, che deve partire dalla stessa organizzazione e cultura aziendale.

«L’innovatore è colui che capisce quale è l’idea giusta al momento giusto», spiega Porcini. «La questione fondamentale è riuscire ad avere una visione di lungo termine, capire dove andiamo e dove sarà il mondo tra 15-20 anni. Poi creare un piano per arrivare lì, avendo però un’agilità per adattarlo e reagire agli errori e ai fallimenti».

Ma non basta un processo decodificato per garantirsi il successo. «Il processo è il pennello», dice Porcini. «È importante, però poi hai bisogno di avere un Picasso per creare un capolavoro. Spesso si parla dei processi e non degli esseri umani che ci sono dietro».

E qui risiede quella che è stata definita anche come una nuova «etica dell’innovazione», che mette al centro il fattore umano non solo nello scopo da raggiungere, ma anche nel percorso per raggiungerlo. Ecco perché diventa necessaria la capacità delle aziende di attirare i talenti e gli innovatori giusti, creando una cultura che li accolga al meglio, per generare valore per l’impresa e per la società. Talenti che hanno magari curriculum non convenzionali e caratteristiche che superano i classici standard seguiti finora dai recruiter.

«La vera differenza nei processi di innovazione la fanno le persone», dice Porcini. «Quando devi passare dal concept all’innovazione e traghettarla attraverso la complessità del mercato, la variabile umana è fondamentale».

Il team giusto fa la differenza. E dopo anni di esperienza come selezionatore di designer, Porcini ha capito che i titoli sul curriculum non bastano. «Servono le soft skill giuste», dice. E così ha stilato un elenco di caratteristiche che, dal suo punto di vista, un vero innovatore deve possedere. In cima alla lista ci sono qualità come ottimismo, curiosità, bontà, umiltà. «Serve una curiosità insaziabile ed estrema», spiega Porcini. «Poi la capacità di uscire dalla propria comfort zone. E ancora: amore per la diversità, intelligenza emotiva, empatia, bontà».

La bontà «è un fattore potentissimo», dice. «Le persone buone creano una sinergia pazzesca, hanno voglia di lavorare insieme, non sono frustrate nell’andare in ufficio o a un meeting e costruiscono legami che aiutano anche nelle difficoltà personali. Questo genera fiducia, efficienza e produttività. Nell’età dell’eccellenza, quando non esistono confini e barriere, non c’è spazio per il conflitto, che invece è inefficiente e ridondante».

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